Lo stato dell’arte – episodio 2 – Questioni di metodo
Esistono metodi didattici passe-partout, che valgono per tutte le discipline e schiudono le Divine Porte del Successo Formativo? Partendo dall’esperienza nell’insegnamento dell’arte, provo a mostrare come materie diverse richiedano approcci diversi.

La mia materia sono, in realtà, tre diverse materie, accomunate dal fatto di riguardare – tutte e tre – il vastissimo mondo dell’Arte. La prima è storia dell’arte: dalla Preistoria al Basso Medioevo (in prima), dall’inizio dell’età moderna alla fine del XVIII secolo (in seconda) e dal XIX secolo ad oggi (in terza). La seconda è la pratica artistica: matite, carboncini, acquerelli, tempere; ritratti, anatomia, prospettiva, paesaggistica; pubblicità, design, grafica – e chi più ne ha, più ne metta. La terza, infine, è tutto quell’apparato teorico che supporta la pratica artistica: teoria del colore, teoria delle luci e delle ombre, teoria della percezione, eccetera.
Personalmente, da quando insegno ho sempre equamente diviso così il mio orario: un’ora di teoria, un’ora di pratica – tutte le settimane, fino ad esaurimento scorte. Parliamo – al netto di ore di progetti, educazione civica, educazione all’affettività, orientamento, gare di atletica, uscite al teatro in lingua straniera, incontri con le forze dell’ordine, ponti per le festività, elezioni politiche, gite scolastiche e altri progetti ancora che non conteggerò come ore di Arte – di un totale di ore annuali che varia dalle 50 (quando va male) a 62 (quando va molto bene).
Il primo mito, che vorrei sfatare qui, è l’idea – che spesso ho sentito propugnare da pedagogisti di varia tipologia nei molteplici corsi di aggiornamento che mi sono dovuto sorbire in diciotto anni – che i metodi di insegnamento innovativi siano più validi ed efficaci di quelli tradizionali. Tradotto in altri termini: abbasso le lezioni frontali (che sono il diavolo, il nemico, la radice di ogni male della scuola) e viva le EAS, la flipped-classroom, il debate, il peer-tutoring, il learning-by-doing, il clickbaiting (ops, sorry, mi sono perso negli anglicismi).
Vorrei invece, usando proprio la duplice natura della mia disciplina, proporvi un altro punto di vista. Quando faccio pratica coi miei alunni, la didattica è prevalentemente quella laboratoriale. Dopo una breve spiegazione del prossimo elaborato (grafico, pittorico, plastico…) che faremo assieme, correlata da esempi di prodotti ben riusciti degli anni precedenti, divido il lavoro in varie parti e, di settimana in settimana, affrontiamo quelle parti. Uso il feedback (tradotto: giro tra i banchi, mi siedo al tavolo, aggiusto gli elaborati, correggo errori, do consigli). Uso il peer-tutoring e la peer-review (tradotto: i compagni più bravi aiutano quelli meno bravi eseguendo, in versione semplificata, quello che l’insegnante sta già facendo ma che non riuscirebbe a completare in 55 minuti in una classe di 24 alunni). Uso certamente anche il learning-by-doing (tradotto: gli alunni sbagliano, si correggono grazie alle mie indicazioni e a quelle dei compagni più bravi, ci riprovano, aggiustano, migliorano o ci tentano). Uso anche la DDI, cioè la Didattica Digitale Integrata (tradotto: gli lascio degli approfondimenti online, su Classroom, che possono svolgere in modalità asincrona, cioè anche quando non sono in classe). Facciamo un esempio reale: in seconda dedico quasi due mesi (che sembrano tantissimi, invece sono 8 ore di pratica – quando va bene!) per svolgere un’unità didattica sul ritratto. Una settimana faremo lo schema del viso, un’altra la dedicheremo agli occhi, un’altra alle labbra, ecc. Caricherò online video-tutorial con tutti gli approfondimenti del caso (errori da non fare nel tracciare le ciglia, come disegnare i capelli ricci o lisci o mossi – e via discorrendo). Colgo anche l’occasione, con questa non esaustiva sbrodolata di termini inglesi così fashionable nella didattica di oggi, di far presente che dietro nomi pomposi e volutamente fumosi si nascondono pratiche didattiche che, almeno nella pratica artistica, sono sempre stati utilizzati (tranne quelli digitali, per ovvie ragioni storiche).
Quando, invece, faccio teoria, ossia storia dell’arte, il metodo è prevalentemente quello della lezione frontale – termine improprio, almeno secondo me, agitato come spauracchio proprio da quei pedagogisti che l’hanno in odio. “Lezione frontale” evoca una rigidità militaresca, un insegnante ritto, dietro la cattedra e davanti a una classe in silenzio tombale, lo sguardo degli studenti tra l’annoiato e l’assente, il docente che parla con voce monotona di argomenti vecchi e polverosi e di nessuna utilità… di solito, invece, quest’immagine rievoca in me proprio i corsi di aggiornamento, mentre il pedagogista di turno illustra frontalissimamente per svariati minuti le sue mirabolanti didattiche innovative! Tornando però sul tema, la lezione frontale dovrebbe essere più correttamente chiamata lezione dialogata, perché l’insegnante coinvolge attivamente gli alunni nelle spiegazioni, in vari modi. Esemplifico: io utilizzo un corredo di immagini delle opere che tratto in alta definizione (proiettate sugli schermi delle digital board in classe); uso Google Maps e Street Views per visitare virtualmente chiese, piazze, palazzi, musei; fornisco agli alunni su Classroom, come compito domestico, “immagini parlanti” create in ThingLink dal sottoscritto sulle opere trattate, così come mappe concettuali e glossari (sempre creati da me) per riassumere gli argomenti; la settimana prima di una verifica facciamo un ripasso con Kahoot appositamente creati da me (ed ecco che uso pure la gamification!). Certo… tutto molto bello! Ma il cuore della lezione è la spiegazione, quella che solo io (insegnante, esperto della disciplina) posso fornire all’alunno (non insegnante, non esperto della disciplina). Gli alunni alzano le mani, fanno domande, sono curiosi, interagiscono… è tutto fuorché una “barba frontale”! Ebbene, nessun’altra metodologia può sostituire questa lunghissima e fondamentale trasmissione della conoscenza che perdura da secoli.
Ero, però, partito dal voler offrire un punto di vista “diverso” sulle questioni metodologiche partendo dalla duplice natura di Arte e immagine alle scuole medie. Eccolo qui riassunto: ad ogni materia la metodologia che le è propria. Fine. La vera follia è pensare che io possa insegnare storia dell’arte coi metodi che uso per la pratica… o pratica coi metodi della storia dell’arte! La vera follia è pensare che esistano metodologie passe-partout, che siano universalmente valide per ogni disciplina. Invece i metodi di insegnamento per imparare a disegnare (allenamento della mano su precisione, tratteggio, campiture, sfumature, pressione, pesi visivi, luci e ombre…) saranno o no ben diversi da quelli per imparare la storia dell’arte (cronologia, iconografia, iconologia, tecniche usate…)? Pensate l’assurdità di insegnare Arte usando i metodi delle scienze naturali, oppure grammatica coi metodi di scienze motorie, oppure musica coi metodi di informatica…
Infine, così come non esistono metodologie passe-partout, non esistono metodologie che garantiscano automaticamente il fantomatico “successo formativo” (tradotto: la promozione indiscriminata di tutti gli alunni), poiché tutte loro, anche le più sedicenti “innovative”, si scontreranno sempre con quella piccola cosuccia chiamata libera volontà o libero arbitrio che anche gli alunni, incredibilmente, possiedono.
L’autore di questa veritiera spiegazione di come concretamente si lavori in classe, fa giustizia del fantoccio caricaturale che hanno inventato e rappresentato in giro i fautori della Fuffa pedagogistica: un fantoccio dell’insegnante e della sua lezione frontale (dipinta invariabilmente come un noioso e monotono monologo) che serve per poter giustificare il loro intervento (non gratuito, credo) a Scuola e quindi la Formazione -da loro impartita- di cui evidentemente gli insegnanti abbisognano. Davanti a risultati sempre peggiori, da circa 25 anni a questa parte, i Pedagogisti e i Formatori in genere, non hanno saputo fare altro che richiedere altra Formazione, ancora. Le cose sono andate di male in peggio -asseriscono- perché gli insegnanti non li hanno ascoltati, di Formazione ne hanno fatta poca e insistono testardamente in queste così poco democratiche e poco empatiche lezioni frontali. Ma nel resoconto che Bernasconi ci fa del suo lavoro, tutto appare invece così colorato, vivo e dinamico. Purtroppo in Italia il Promozionismo, vera avanguardia della Fuffa formativa, ha minato questa ricchezza, spingendo diseducativamente i nostri studenti sempre più viziati, verso forme anche ciniche di opportunismo. La ricchezza che, in tutta semplicità e senza spocchia, ci squaderna davanti Angelo, è quella dell’insegnante artigiano, libero nella sua metodologia perché protetto dall’art.33 C., soprattutto flessibile e non rallentato da pastoie burocratiche, piani formativi di sorta e depredato di tempo prezioso a casua di progetti inutili e di fantasiose educazioni a qualcosa. Questa è la Scuola che ci piace, con al centro, come un medico in corsia o un capitano sul ponte di una nave, il docente. Nell’interesse e al servizio, prima di tutto dell’intera Società e poi dello studente.