Interrogazione senza ansia: ma a che prezzo?
Anche molti studenti ormai riconoscono le crescenti difficoltà dei docenti nel condurre le interrogazioni.

Parlo da studente, non da pedagogista, docente o psicologo, ma da qualcuno che ogni giorno vive la scuola e che osserva i silenzi, le domande, le ansie e vede le dinamiche.
In questi anni si è parlato moltissimo dell’ansia scolastica, dei blocchi, delle insicurezze che gli studenti vivono davanti a un’interrogazione. E giustamente: l’emotività, quando prende il sopravvento, può compromettere tutto il percorso di apprendimento. Nessuno dovrebbe essere valutato in condizioni psicologiche ingestibili. Ma quello che si dice meno, e che si sente raramente, è che oggi a essere in ansia non sono solo gli studenti. A volte, lo sono anche i docenti. Non per paura del giudizio, ma per una nuova forma di pressione educativa: il timore di interrogare nel modo sbagliato.
C’è come una forma di pudore, o forse di paura sottile, che aleggia ogni volta che un insegnante si appresta a valutare oralmente uno studente. Quasi che porre domande frontali, chiedere spiegazioni dirette o verificare le conoscenze in modo “classico” equivalga a creare disagio, o a esercitare una qualche forma di violenza psicologica. Così, in nome della “didattica gentile”, si finisce spesso per trasformare l’interrogazione in una chiacchierata. In certi casi, addirittura in un flusso di coscienza dove lo studente può dire un po’ di tutto, l’importante è che lo faccia con serenità.
L’intenzione è buona, nobilissima: mettere lo studente a proprio agio, ridurre lo stress, evitare i traumi. Ma se a forza di voler evitare ogni forma di pressione, si svuota completamente l’interrogazione della sua funzione, allora c’è un problema. Perché l’interrogazione non è una seduta di ascolto, né un podcast dal vivo. È uno spazio formativo che serve a far emergere la preparazione, a stimolare il ragionamento, a consolidare conoscenze. È anche, inevitabilmente, un momento di esposizione: si parla, ci si espone, si viene valutati. E un po’ di tensione è naturale. Non va demonizzata. Va solo gestita.
Non è raro trovare professori che evitano di porre domande troppo secche per non mettere in difficoltà gli studenti. O che si autocensurano, chiedendo scusa prima ancora di interrogare: “Non voglio metterti ansia, tranquillo, fai come se stessi parlando con un amico.” Ma la scuola non è un gruppo Telegram. È un ambiente educativo dove si cresce anche affrontando piccole sfide, in un contesto protetto. Ed è proprio lì che la valutazione può diventare occasione di crescita, se gestita con intelligenza e rispetto.
Il punto è che interrogare davvero – con serietà, con rigore, ma anche con umanità – è un’arte delicata. Richiede equilibrio. Non si tratta di tornare ai modelli autoritari del passato, dove si interrogava per “incastrare” lo studente, ma nemmeno di ridurre tutto a una conversazione rilassata dove le conoscenze sono accessorie. C’è bisogno di recuperare il senso autentico dell’interrogazione: un momento in cui lo studente ha l’occasione di dimostrare quanto ha appreso, ma anche di confrontarsi, di ragionare, di essere guidato.
Il problema non è l’interrogazione. Il problema è il modo in cui la si percepisce: o come trauma o come formalità. In mezzo c’è un terreno fertile, che permette di restituire dignità a quel momento scolastico. E serve anche il coraggio, da parte dei docenti, di stare in quella zona intermedia. Di non aver paura di interrogare. Di accettare che una domanda possa mettere lo studente in tensione, senza sentirsi in colpa, perché la tensione non è per forza negativa. Anzi, può essere il segnale che lì c’è qualcosa che conta davvero.
Perché imparare ad affrontare l’ansia, e non solo evitarla, è parte dell’educazione. E un’interrogazione ben fatta, equilibrata e rispettosa, può diventare esattamente questo: un piccolo laboratorio di vita, non solo di scuola.
Salvatore Paolo Caligaris
è studente al liceo classico ed è il fondatore di Hub Letteratura.
Ubi studium ibi lux
Nel mentre che tanti insegnanti si dimenticavano l’ABC della professione c’erano degli studenti che se ne appropriavano. Di questa sagace riflessione di Salvatore Caligaris voglio sottolineare qui soltanto un aspetto -la *reciprocità*. Cosa rara nella Scuola di oggi. Salvatore infatti non si rapporta all’insegnante come a un qualcuno da aggirare, usare e poi gettare via – cioé come, a mio avviso, è successo recentemente in alcuni recenti orali di Maturità- ma come a un Altro-da-sé da rispettare e al quale prestare attenzione. Nel superare le sirene narcisistiche, Caligaris ha così dimostrato come -nel rispetto dei ruoli- l’empatia possa essere ricambiata.
Una riflessione perspicace e utile. Le prove orali spesso sono considerate, e sono diventate, una sorta di “domanda di riserva”, di “prova di recupero” rispetto alle verifiche scritte. Oggigiorno molti studenti ammettono di poter prendere un’insufficienza in un compito scritto, ma quasi tutti ritengono inammissibile che ciò avvenga in una interrogazione. A meno di una scena muta completa, lo studente ritiene che il suo aver detto qualcosa configuri già di per sé un’interrogazione sufficiente.
Il problema è stato acuito dalla deriva dei piani didattici personalizzati, nei quali – non si capisce su quali basi razionali – si prescrive d’ufficio che gli studenti (tutti, non i dislessici o disgrafici) abbiano diritto a “recuperare” con gli orali eventuali insufficienze dello scritto.
E ammettiamolo: chi di noi, anche dei più rigorosi e fermi, non si è trovato negli anni ad ammorbidire sempre di più le valutazioni delle prove orali scadenti? Magari qualcuno è riuscito a mantenere una conduzione seria dell’interrogazione, ma poi al momento della valutazione il disastro non vale più 4, ma 5, 5 e mezzo, magari 6 meno…