La trappola del benessere
Siamo sicuri che il benessere possa essere eletto a mezzo o addirittura scopo naturale di una scuola che istruisca ed educhi l’individuo?

Oggigiorno si sottolinea sempre di più quanto sia importante il benessere: a livello psicofisico, a livello educativo, nella coppia, insomma a tutti i livelli.
L’attenzione per quello che in tutte le lingue a noi vicine è lo “star bene” (bien être, well being ecc.) , è sicuramente importante, ma non deve far dimenticare che esiste un’altra dimensione che non è quella del benessere ma è quella del bene. Spesso in nome del benessere il bene è sacrificato. Ma facciamo un passo alla volta: qual è la differenza tra benessere e bene?
Il benessere si radica nel tempo presente e uno “stare”, è connesso al piacere e alle sensazioni. Quando si parla di benessere si sta sempre facendo riferimento al vissuto immediato e istantaneo. Oggi si cerca primariamente questo perché viviamo in una società che spinge a immergersi nell’attimo presente per dimenticarsi di un futuro di solito dipinto a tinte scure e ansiogene. Quindi tutto ciò che conta è il qui ed ora e con esso come sto io in questo impalpabile adesso. Il bene è tutt’altra cosa: il bene non può esistere se non in una dimensione temporale che si proietta nel futuro. Spesso la via per il bene implica di mettere in discussione il benessere momentaneo in vista di una realizzazione più completa e profonda. Per dirla in termini freudiani il benessere è agganciato al principio di piacere, non vede oltre sé stesso. Il bene è il principio di realtà, è la dimensione del presente al servizio di qualcosa di più grande di noi e del nostro godimento.
Questa trappola che porta a privilegiare il benessere a scapito del bene è molto visibile nell’ambito dell’istruzione: si deve provvedere sempre di più al benessere dello studente, al suo momentaneo stare a proprio agio, che porta quindi ad escludere difficoltà e frustrazioni. Non si pensa che a volte, in vista di un bene, quel benessere dovrà essere sfidato, messo in crisi.
Vorrei chiudere con un aneddoto molto concreto che esemplifica bene questa tendenza. L’anno scorso diedi ad una ragazza di terza l’insufficienza in filosofia nel primo quadrimestre, ne fece una crisi: si mise a piangere e strepitare, urlava nei corridoi che mi odiava. Una collega paladina del benessere la abbracciò, lei di insufficienze non ne dava probabilmente. La ragazza dovette superare la frustrazione, recupero’ con un meritato 8 e mezzo e alla fine dell’anno, nella pagella del secondo quadrimestre, aveva 8 in filosofia. A fine anno mi disse “prof. aveva ragione nel primo quadrimestre non avevo capito come studiare”. Per realizzare se stessa, migliorare ed evolvere (che può essere considerato il suo bene) aveva dovuto rinunciare al suo momentaneo benessere. Se non permettiamo quest’esperienza ai nostri studenti (e a noi stessi) finiremo per essere persone che, in un modo un po’ narcotizzato, stanno “bene” ma non sanno nemmeno che cos’è il “bene”.
Che cosa si potrebbe opporre, in una discussione razionale, a una riflessione chiara e conclusiva come questa? Nulla. Ma la scuola è ormai in balia di una religione che predica e pretende fede e obbedienza ai suoi dogmi, esige ortodossia e tratta come eretici coloro che non eseguono o addirittura non eseguono con entusiasmo, avvalendosi di una Inquisizione che si sente onnipotente.
«Il lavoro, invece, è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma» Hegel / “Fenomenologia dello Spirito”/
Senza capacità di differimento della gratificazione, restano l’effimero esistenziale e la mancanza di form/a/zione. Socialmente parlando: la legge della jungla.
Decisamente interessante questo articolo di Rosvita e, occorre dirlo, più che necessario in un contesto come quello in cui ci troviamo, che è quello di uno stordimento generale tutto proteso al piatto di lenticchie.