Lettera dal fronte: cultura woke alla scuola professionale

Che la scuola sia a rischio di diventare un luogo di indottrinamento è chiaro; forse non è per tutti così evidente come ciò possa avvenire anche negli istituti professionali, se non altro perché tutto sembrerebbe subordinato alla formazione del lavoratore.


Desidero condividere alcune brevi riflessioni emerse negli ultimi giorni, durante i quali ho avuto il ruolo di membro esterno all’esame di Stato. Non intendo elencare le banalità, le risposte grottesche o gli episodi esilaranti emersi nelle prove scritte e negli orali, le pagine web e i social ne forniscono a iosa in questi giorni. Piuttosto, vorrei soffermarmi su come alcune “ideologie didattiche” si siano ormai radicate e stratificate anche in ambienti insospettabili.

Tutto ha inizio a giugno, quando apprendo di dover temporaneamente lasciare il mio liceo, classica scuola “fighetta” in centro città, per trascorrere alcune settimane in un istituto professionale della provincia, situato nelle campagne del centro Italia. Un ambiente meno urbano, più… ingenuo, si potrebbe dire. È probabile che questa introduzione venga interpretata da alcuni come una manifestazione di classismo, ma non è così. E non utilizzerò la scusa ormai consueta di “ho molti amici al professionale in provincia”, calco del più noto “ho molti amici gay”. Posso assicurare di aver sviluppato un’opinione positiva nei confronti dei professionali, insegnandovi più di vent’anni orsono, a inizio carriera: ricordavo che fossero un luogo in cui i giovani dovessero confrontarsi con esperienze pratiche, apprendendo tecniche, strumenti e metodologie utili al mondo del lavoro. Era fondamentale che i ragazzi imparassero a estrapolare principi generali da una moltitudine di casi pratici e a risolvere problemi affidandosi alla loro razionalità e intelligenza. Ritengo che queste capacità siano ormai carenti nei licei, dove gli studenti, troppe volte annoiati e privi di stimoli, trascorrono le giornate tra incontri con psicologi e lavori di gruppo su problematiche adolescenziali.

Al contrario, ricordo come nei percorsi professionali si percepisse l’urgenza di imparare un mestiere. La scuola era il luogo di formazione completa: pochi anni di studi dovevano bastare per acquisire competenze specifiche, saper leggere un contratto, sviluppare una buona velocità nel calcolo e affrontare il mondo del lavoro con sicurezza. Non c’era spazio per fronzoli o distrazioni.

Pensavo fosse ancora fondamentalmente così. Invece, mi sbagliavo!

Avevo sottovalutato un fenomeno ormai diffuso e pervasivo in tutto il sistema scolastico nazionale. Per capire meglio, voglio evidenziare tre esempi emblematici, prima di giungere alle conclusioni:

  • Mappe concettuali e schemi: se un docente osa affermare che molte di queste siano riassunti e non vere e proprie mappe mentali, quest’ultimo viene subito accusato di mancare di sensibilità nei confronti di studenti con bisogni speciali.
  • Presentazioni degli studenti: i docenti interni, che presentano gli alunni, commettono frequentemente un passo in più, elencando disagi e difficoltà personali. Si parte segnalando casi di studenti con DSA e svantaggi linguistici (segnalazioni doverose) per poi arrivare a evidenziare questioni personali, familiari o addirittura sentimentali. Probabilmente si pensa che l’essere stati mollati dalla fidanzata un mese prima possa giustificare una evidente ignoranza delle date della Prima guerra mondiale.
  • Temi: leggendoli, sono rimasto frastornato. Mi aspettavo testi poco orientati ai contenuti disciplinari e più attenti all’attualità, non lo nego. Però il quadro che emerge è scoraggiante. Ho trovato un susseguirsi di luoghi comuni, spesso riconducibili alla teoria “woke”, privi di senso logico: collegamenti forzati tra Borsellino, cyberbullismo e il “gender gap”, o argomenti come femminicidi e riscaldamento globale inseriti senza coerenza, spesso contro la logica stessa della discussione. Sono stati il trionfo di superficialità e qualunquismo.

Non insisterò troppo su quanto questi giovani siano privi di un minimo di interessi culturali: molti non sanno parlare l’italiano correttamente, il livello di inglese è preoccupante, non sono in grado di svolgere semplici operazioni matematiche o distinguere una cellula da una molecola. Tuttavia, ciò che più mi colpisce è come abbiano profondamente interiorizzato le “storture” del sistema scolastico: parlano con disinvoltura di problematiche adolescenziali e banalità di educazione civica, come se la scuola fosse solo un luogo di assistenza ai loro problemi, piuttosto che un’officina di conoscenza. È chiaro a tutti loro come il focus dell’istituzione non sia più la loro formazione culturale e professionale, bensì il riconoscimento del loro disagio.

In questo magma di buonismo e approssimazione, ogni forma di dissenso viene considerata sacrilega. Quando si cerca di riportare l’attenzione sui contenuti disciplinari, si incassa sempre uno sguardo di sdegno: “Non si tratta di un’interrogazione, ma di un colloquio. Come osi considerare il calcolo differenziale o Dante più importanti del loro groviglio emotivo? Sei un classista senza cuore.”

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