Sulla retorica della “formazione” dei docenti.

Molti docenti si stanno piegando all’idea della “formazione in servizio” (e non dell’aggiornamento) senza rendersi conto che si tratta di un’offesa…


Questo articolo intende illustrare quanto impropriamente sia utilizzato il termine in oggetto e spiegarne i motivi. Non farò valutazioni relative alla classe docente, sia perché non è questo il mio obiettivo, sia perché non strettamente inerenti al tema trattato.

Il termine “formazione”, applicato ai docenti in ruolo tramite pubblico concorso, è, a priori, semanticamente squalificante: non può essere riferito a un professionista in possesso di titolo di studio e abilitazione, ma tutt’al più a chi sta seguendo un percorso di praticantato. Tale necessità di “formazione” è in contrasto con la presunta capacità, già valutata nelle sedi concorsuali e talvolta in ambito universitario, di attuare autonomamente gli eventuali approfondimenti da realizzare. Relativamente a ciascun singolo docente, andrebbe giustificata questa presunta necessità di ulteriore “formazione” tramite personale che si porrebbe quindi a un livello superiore rispetto a quello del docente, capace dunque di valutare in tal senso i bisogni di studio del professionista.

Tale “formazione” deve essere retribuita ed effettuata in orario di servizio. Non è, inoltre, accettabile che soggetti non qualificati per valutare la professionalità docente si attribuiscano la prerogativa di proporre percorsi obbligatori o prescrittivi, spesso scollegati dalla reale pratica didattica. Non ci possono essere, ai sensi dell’art. 33 della C.I., ingerenze nell’attività d’insegnamento del docente. Sempre secondo la C.I., al T.I. pubblico si accede tramite concorso, durante il quale viene testata la preparazione del docente, sia sotto il profilo della conoscenza della materia, sia sotto quello della capacità d’insegnamento. Ogni docente ha, o dovrebbe avere, una propria necessità di maturazione intellettuale, che non può obbedire a regole prestabilite e che può quindi attuarsi nei modi e nei tempi più vari.

Volgendo l’attenzione al motivo per cui viene propinata questa solfa sulla “formazione”, è piuttosto chiaro che si tratta di uno strumento per scaricare sul docente politiche scellerate, tendenti ad annichilire il ruolo della pubblica istruzione e gli eventuali insuccessi degli alunni, in una scuola che ormai, per scelta politica, non seleziona più. Tale strumentalizzazione è in realtà funzionale anche a mantenere la classe docente in uno stato di indigenza, per via degli stipendi miseri. Ciò comporta un grande risparmio per le casse dello Stato, fomenta la concorrenza tra i docenti per racimolare qualche incarico al fine di percepire un compenso aggiuntivo, e finanzia gli enti di “formazione”. Inoltre, sottrae al docente il tempo necessario per la propria attività intellettuale e lo tiene impegnato in attività burocratiche del tutto non necessarie, secondo uno schema machiavellico.

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