Dsa: in risposta a Galiano
È necessario uscire dalla vaghezza stereotipata di alcuni discorsi, perché la buona didattica nasce da una descrizione onesta delle difficoltà da affrontare insieme.

Il recente intervento, caustico e non privo di pecche, del filosofo Umberto Galimberti sulle certificazioni di disturbo specifico d’apprendimento (d’ora in avanti: dsa) ha scatenato un acceso dibattito sui media, provocando una levata di scudi. Tra le reazioni contrarie alle affermazioni di Galimberti si è distinta quella del professor Enrico Galiano, alla quale ci sentiamo in dovere di rispondere per amor di verità e di logica. Il tema è un nervo scoperto della scuola italiana e su di esso il dibattito è stato finora quasi assente, o troppe volte fortemente ideologizzato nei suoi schieramenti. Per trattare un argomento così delicato ci sembra anzitutto necessario far chiarezza su alcune parole, utilizzate spesso in barba al loro significato appropriato: molti termini della questione sono entrati nel gergo già fallati, ma non per questo dobbiamo accettarne le storture. Sentiamo anzi il dovere di evidenziarle, per intenderci e progredire nel dialogo scansando le insidie dell’incomprensione e delle presunte offese a chi è personalmente coinvolto. Il video pubblicato su Facebook da Galiano ci fornisce l’occasione di chiarire anche altre cose che ci sembrano importanti.
Sistemi diversi, risultati diversi
Galiano, nel suo intervento, ci chiede di immaginare il cervello come se fosse un computer. Stando alla similitudine, lo studente con dsa avrebbe un sistema operativo diverso dagli altri ragazzi. Per funzionare al suo meglio tale sistema operativo avrebbe bisogno delle giuste applicazioni: cioè di appositi strumenti compensativi. Ora, tralasciando l’appropriatezza della similitudine – il nostro cervello è ben più complesso di un computer, grazie a Dio – ciò parrebbe dimostrare esattamente la tesi opposta a quella sostenuta da Galiano: se due computer impiegano sistemi operativi diversi ma uno dei due ha bisogno di strumenti o tempi aggiuntivi per poter svolgere le medesime funzioni dell’altro, pare evidente che – in ordine a quelle specifiche funzionalità – esso ha un’efficienza ridotta. Galiano muove, come tanti, dal presupposto che diversità e differenza siano termini con un’accezione necessariamente positiva per coloro che le vivono. Ma la diversità tra gli individui può ben comportare uno scarto più o meno grande di alcune loro capacità rispetto alla norma; e dunque può essere associata ad una minore o maggiore conformità rispetto a certi scopi particolari, può essere associata ad una bassa efficienza di alcune funzionalità, a reali deficit1; il che senza nulla togliere alla assoluta dignità delle persone implicate nel confronto, ma anche senza relativizzarne le incapacità operative.
L’intelligenza non si discute
Gli studenti con dsa, in quanto tali, non sono pensatori peggiori della norma, giacché i disturbi che li affliggono non sono generalizzati, sistemici, pervasivi. I loro disturbi riguardano dipartimenti ristretti delle facoltà intellettive, benché essi siano evidenziati piuttosto facilmente dalla scuola come istituzione finalizzata alla trasmissione intergenerazionale del sapere che si serve della lettura, della scrittura e del calcolo. Sappiamo con certezza che gli scolari e gli studenti con dsa riescono mediamente meno bene dei compagni nello svolgimento di alcuni compiti scolastici tipici; ma tali difficoltà, affinché si possa parlare di disturbi specifici d’apprendimento, devono essere associate ad una predisposizione neurobiologica che le distingue da analoghe difficoltà di origine ambientale.
In effetti, a conferma dei buoni standard intellettivi dei bambini e dei ragazzi che presentano i sintomi del disturbo da dislessia, sia su base ambientale sia su base genetica, esistono studi corposi, soprattutto francesi2; questi sottolineano anche che la netta maggioranza dei casi è composta da soggetti che hanno accumulato un ritardo di lettura3 connesso a vicissitudini scolastiche o personali, cui – con pazienza, metodo ed impegno – si può porre qualche rimedio, proprio poiché non v’è compromissione neurobiologica.
Il noto neuropsichiatra Michele Zappella, uno dei padri dell’inclusione scolastica italiana, ritiene che i veri casi di dislessia, cioè quelli per i quali è presente una causalità genetica, siano l’assoluta minoranza (1 caso su 5) tra quelli diagnosticati:
“La dislessia, tuttavia, rimane al centro dell’attenzione, con un forte aumento delle diagnosi che quasi sempre inglobano nella loro definizione pochi casi a base genetica, che sono i veri casi di dislessia, e un gran numero di ritardi di lettura, che spesso hanno come controparte un insegnamento inadeguato e condizioni economiche familiari precarie […] una diagnosi, probabilmente sbagliata, che attribuisce una lieve difficoltà di lettura a una causa neurobiologica irreversibile, diventa un’etichetta da cui non è facile liberarsi e che rischia di coinvolgere l’intera persona con un effetto paradigma […] una sorta di immagine che si cala sul nostro modo di pensare e ci mostra la realtà riflessa da una sorta di specchio deformante.” 4
Per cercare di ovviare ai dsa, la norma (Lg.170/2010 e successive Linee guida) prevede che si ricorra ad alcuni particolari strumenti (calcolatrice, videoscrittura, lettore, registratore, mappa concettuale, schema sinottico, formulario, adattamento dei tempi e del tipo di quesiti da impiegare nelle prove di verifica) o – soprattutto nei casi più gravi – ad alcune dispense (dalla lettura ad alta voce, dalla correttezza ortografica, dallo svolgimento di prove scritte in lingua straniera). Va da sé che, al di là dell’anodina e fumosa retorica secondo cui gli studenti con dsa funzionerebbero soltanto in modo diverso, essi vivono quotidianamente una ridotta efficienza di alcune capacità intellettive specifiche; manca loro qualcosa proprio come a qualcuno manca il senso del ritmo, l’intonazione musicale o la perfetta coordinazione motoria. È a fronte di queste fragilità oggettive che si parla di “bisogni educativi speciali”, e che sono state poste in essere le tutele normative che conosciamo.
Similitudini erronee
Galiano sceglie anche un’altra immagine per descrivere la situazione di colui che soffre un dsa: “Un po’ come uno che ha bisogno degli occhiali”. Riteniamo che il professore sbagli, e sbaglino di grosso tutti quelli che con lui ricorrono a questa similitudine: certamente comoda, ma fuorviante per una vera comprensione del fenomeno.
Gli occhiali, come tutti sappiamo, correggono un difetto visivo, permettono un processo di adeguata messa a fuoco, compensano una difformità funzionale dell’occhio. Tuttavia gli occhiali non agiscono affatto sui processi cognitivi. Gli occhiali agiscono sulla percezione grezza, sono uno strumento ottico; tanto è vero che, seppure in una persona miope la visione senza lenti correttive dia luogo ad un’immagine sfuocata, la sua elaborazione cerebrale era e resta adeguata. Mentre, dunque, gli occhiali correggono a perfezione il sistema ottico in cui vengono introdotti, garantendo l’ottimale elaborazione delle informazioni esterne, gli strumenti compensativi non accrescono affatto l’efficienza delle capacità di lettura, scrittura o calcolo, che restano deficitarie. Semplicemente consentono allo studente di aggirare l’ostacolo, che rimane intatto là dov’era. Potremmo persino dire che gli strumenti compensativi finiscono con il dispensare lo studente dall’impiego delle strumentalità cognitive compromesse: se egli stenta – per esempio – ad interiorizzare e collegare una serie di idee-parole logicamente organizzate e perciò ricorre ad una mappa concettuale, non può illudersi che questo supporto corregga i suoi processi cognitivi disfunzionali. Molto più realisticamente ogni studente che si serva di una mappa concettuale è esonerato da un segmento, per quanto piccolo, del lavoro intellettuale che è richiesto a tutti gli altri.
La similitudine tra occhiali e strumenti compensativi è insomma ingiustificata: se ci atteniamo ad una diversa metafora possiamo piuttosto dire che quelli sono i tergicristalli e i fanali che mettono l’automobilista nelle condizioni di visibilità ottimali per orientarsi da sé nella città; questi sono invece il navigatore satellitare che guida l’automobilista quand’anche non conosca il percorso. Infatti se uno studente affetto da dislessia si serve di una mappa concettuale, non si libera dagli effetti della dislessia; ma oltre a non correggere il difetto di lettura, egli non raggiunge nemmeno lo scopo più generale di apprendere o ricordare ciò che non riesce ad apprendere o ricordare con lo studio. Gli occhiali garantiscono una visione corretta; la mappa concettuale non abilita affatto il corretto funzionamento delle facoltà compromesse; resta un supporto esterno all’atto cognitivo; si sostituisce all’apprendimento, o al ricordo dello studente.
La natura non compensativa di alcuni strumenti didattici si coglie bene quando certi studenti ne abusano: non è infrequente che le mappe concettuali perdano il loro carattere schematico, sintetico, per diventare brogliacci zeppi di informazioni anche di rango secondario o terziario: dei manualetti in miniatura. Sfidando paradossalmente le difficoltà di lettura e scrittura, le mappe si infittiscono di testi articolati, e diventano bigini dove l’allievo può reperire tutto quello che c’è da sapere, almeno finché l’insegnante non s’oppone. Con tutta evidenza questi casi sono il risultato della scaltrezza di allievi vieppiù sfaticati, oppure del fatto che le loro difficoltà, a partire dalla lettura e dalla memorizzazione dei termini-chiave, si irradiano ai meccanismi di comprensione ed organizzazione mentale dei materiali di studio. Ciò non è un fatto marginale nel contesto scolastico. A scuola si apprende soprattutto attraverso l’uso delle parole e dei concetti, che tessono tra loro fittissime reti di relazioni corrispondenti ai nessi che innervano la realtà. Ci pare allora ovvio – limitandoci al problema della dislessia – che, se le parole e i nessi tra le parole non vengono bene interiorizzati, è improprio parlare di un reale apprendimento. Allo stesso modo è improprio parlare di compensazione: l’uso di una mappa concettuale, di uno schema sinottico o di una tabella non controbilancia (questo significa cum + pensare) la presenza dei disturbi d’apprendimento; anzi, sovente quei supporti finiscono col diventare il centro dell’attenzione dell’allievo, distraendolo da altri rilevantissimi compiti cognitivi; e qualche volta, infine, essi diventano dei veri disincentivi allo studio, presentandosi come un suo sostituto in vista dello svolgimento delle prove di verifica.
Avere limiti strutturali nella lettura e nella padronanza del pensiero verbale a scuola è come avere limiti ritmici e di intonazione in un’accademia musicale; oppure è come avere limiti di disprassia e di percezione dello spazio in un’accademia d’arte. A prescindere da quali ne siano le cause, si tratta di limiti che – nei casi più estremi – potrebbero pregiudicare il conseguimento di quei titoli di studio proprio perché sono riferiti a capacità strumentali e tuttavia cruciali per il raggiungimento degli obiettivi minimi.
Quando la memoria di lavoro di uno studente con un dsa è materialmente oberata dalla consultazione dei cosiddetti strumenti compensativi, egli attende con difficoltà alle funzioni cognitive di ordine superiore verso cui tutti gli studenti sono sollecitati. Egli infatti fatica a sganciarsi dai compiti basilari che la maggior parte delle persone svolge senza pensarci avendoli automatizzati5: se, ad esempio, durante un’interrogazione lo studente con dsa si serve di una mappa concettuale per organizzare l’esposizione dei propri pensieri è inevitabile che, concentrandosi su di essa, egli abbia meno risorse libere da dedicare ad altri aspetti della propria esposizione. La compensazione che dovrebbe essere dunque garantita da alcuni strumenti didattici è perciò problematica, se non falsa, illusoria.
Strumenti e fini
Per tutte le ragioni fin qui esposte, a rigore di logica, la stessa espressione strumenti compensativi a cui rimandano gli interventi didattici da adottare con gli scolari e gli studenti affetti da dsa non è sempre un’espressione del tutto onesta, specie per ciò che concerne i dispositivi “meno evoluti” (tabelle, mappe concettuali e formulari) il cui uso è però il più richiesto ed equivocato dagli studenti e dalle famiglie (non siamo a conoscenza di discussioni sull’uso del registratore, degli audiolibri, della sintesi vocale, dei programmi di videoscrittura con correzione automatica). Cerchiamo di capire perché.
Ogni strumento umano è un attrezzo, un mezzo che faciliti il perseguimento di un preciso fine. Quando a scuola mettiamo a disposizione di uno studente con un dsa il formulario o la mappa concettuale durante una prova di verifica ci sembra che egli agisca in una zona grigia, tra la falsa compensazione già descritta e l’apprendimento incerto o del tutto mancato. Infatti lo studente che ricorra alla mappa concettuale, al formulario, allo schema grafico o alla tabella, specie nel momento di verifica, non dà alcuna garanzia circa l’interiorizzazione di quello che vi è riportato. Senza dubbio quegli strumenti possono potenzialmente costituire il solo richiamo esterno a contenuti mentali già sufficientemente strutturati; ma possono anche vicariare per intero l’apprendimento in quanto fine, sia che i disturbi specifici lo abbiano reso arduo, sia che manchino l’impegno e lo studio. Si dirà: è l’insegnante che deve capire dove arriva lo studente di suo, e dove può arrivare con i suddetti strumenti, prima di procedere alla valutazione. Ma ciò – assurdamente – presuppone che la valutazione stessa poggi sulla cristallizzazione di un pregiudizio dell’insegnante circa quello che lo studente è in grado di fare senza aiuti, privandolo della possibilità di crescere e di migliorare (non dimentichiamo mai che un cospicuo numero di scolari presenta solo i sintomi di un disturbo specifico, ed essi restano tecnicamente recuperabili in quanto sviluppati per cause ambientali). Si palesa qui anche la rigidità del sistema dei piani didattici personalizzati, ché non favorisce in alcun modo la libertà del docente di modulare l’impiego degli strumenti compensativi e la conseguente correzione delle atipìe. Resta un dato empirico: in sede di valutazione l’insegnante deve rinunciare a distinguere se lo studente cui sia concesso l’uso di una mappa ne abbia fatto propri i contenuti e le strutture concettuali oppure no, visto che essi restano materialmente a sua disposizione durante la prova.
Per comprendere al meglio l’inganno proprio di alcuni strumenti compensativi istituiamo un confronto col manuale in adozione in una qualsiasi disciplina scolastica. Possiamo certamente dire che esso è un aiuto vitale in fase di studio, un utilissimo strumento di lavoro, ma solo fino a un certo punto: infatti uno dei fini dell’istruzione è l’acquisizione di certi contenuti immateriali, di una parte delle nozioni raccolte nei manuali. È arcinoto che lo scopo dello studio è l’interiorizzazione più o meno capillare delle informazioni veicolate dagli strumenti: ebbene, a differenza di quel che accade con lo strumentario dello studente con dsa, giunge il momento in cui il manuale può essere abbandonato proprio perché è avvenuta l’interiorizzazione dei suoi contenuti. Ne consegue che chiunque scelga di permettere sempre la libera consultazione del manuale agli studenti pensando di aiutarli è in grave errore, giacché la mancata automatizzazione di alcune conoscenze fondamentali pregiudica in modo variabile le capacità di pensiero future. Ciò che parrebbe un aiuto si rivela un danno.
Faticare non è sapere
Riteniamo allora che la libera consultazione di un sistema materiale che aduni i contenuti da apprendere non sia più solo una questione di strumentalità, ma costituisca una facilitazione straordinaria degli obiettivi didattici dalla quale lo studente con dsa non può trarre un vero beneficio, se non nell’immediato. Non è un caso che le Linee Guida sui dsa del luglio 2011, all’art. 3, invitino gli insegnanti a
“non creare percorsi immotivatamente facilitati”
al preciso scopo di non anteporre il superamento esteriore delle prove di verifica al vero successo formativo, che ha invece una sostanza culturale. Col tempo ogni contenuto non bene interiorizzato da uno studente si rivelerà una struttura instabile su cui sarà impossibile poggiare gli apprendimenti futuri: ciò che sembrava inclusivo si rivelerà escludente. Si badi, non diciamo affatto che l’ingannevole facilitazione garantita dall’uso di alcuni strumenti non muova anche da buone ragioni: lo studente con un dsa può faticare a perfezionare tutti gli apprendimenti necessari all’elaborazione critica della realtà, e per questo viene esonerato da una porzione del lavoro che la ridotta efficienza di alcuni distretti cognitivi ha reso troppo difficoltoso. È tuttavia urgente riconoscere che lo studente che utilizza alcuni tipi di strumenti compensativi si ritrova de facto a beneficiare di una riduzione delle richieste didattiche rispetto ai compagni; egli è tenuto a sapere meno, o a saper fare meno di quel che ci si aspetta da loro. Ciò viola lo spirito della legge 170/2010, che è stato chiarito dalle già citate Linee guida, dove infatti si esorta a
“non differenziare in ordine agli obiettivi il percorso di apprendimento dell’alunno o dello studente in questione (cioè con dsa)” [ibidem]
Per quanto ciò possa apparire brutale, in relazione agli obiettivi dell’istituzione scolastica, non è decisivo che lo scolaro o lo studente con dsa fatichi come gli altri, o che fatichi persino più di loro: a scuola il traguardo non può essere la fatica; il traguardo è l’apprendimento. Per questa medesima ragione basilare ci appare discutibile la logica che regola la valutazione delle prestazioni degli scolari e degli studenti con dsa, oggi concepita in modo da non rilevarne i limiti operativi. La scuola deve insegnare a leggere, scrivere e fare di conto, registrando le differenze tra i risultati di ciascuno. Decidere che gli errori di lettura, scrittura o calcolo di coloro i quali abbiano disturbi d’apprendimento strutturali non meritino d’essere computati è quantomeno arbitrario perché sposta l’attenzione dalle capacità oggettive agli sforzi individuali, avvalorando un paradigma irrazionale fondato sulla soggettività. Inoltre finisce con l’offendere tutti coloro che, a causa di sfortune biografiche e scolastiche non meno reali delle alterazioni cromosomiche, presentino difficoltà e lacune di preparazione che vengono giustamente messe in conto dagli insegnanti, al di là degli sforzi dei bambini e dei ragazzi.
Facilitare, dispensare, escludere
Torniamo sul concetto di facilitazione straordinaria, perché è gravido di conseguenze. Se a uno studente viene richiesto l’apprendimento di certi contenuti, cui farà seguito una verifica finalizzata ad accertarne l’assimilazione e la comprensione, ecco che il ricorso a uno schema o a una mappa concettuale scritta sopperisce alla mancata memorizzazione di alcune conoscenze oggetto di studio. Lo strumento inteso come compensativo, a ben guardare, si rivela una misura dispensativa: in effetti esonera lo studente dall’acquisizione di quei particolari contenuti ch’egli non sa trattenere. Non solo: molto spesso l’ausilio strumentale, come nel caso di certi formulari matematici, va a coprire l’unico contenuto che andrebbe padroneggiato per svolgere l’esercizio, nell’evidente paradosso di una vera e propria surroga delle facoltà mentali meno efficienti, in barba al concetto stesso di apprendimento. Ricordiamo che la scuola promuove lo sviluppo di capacità di ragionamento, e quelle capacità si fondano anche sull’interiorizzazione di tante singole conoscenze, oltre che di opportune abilità. La memorizzazione, la capacità di lettura, di comprensione del testo, la capacità di calcolo aritmetico, così come la capacità di scrittura e di pensiero discorsivo, non si danno in aggiunta al percorso scolastico: sono l’essenza del percorso scolastico; sono le abilità fondamentali senza aver acquisito le quali gli studi risultano, dalla scuola primaria fino al termine della scuola secondaria, deficitari e difficoltosi. Dopo simili premesse è quindi vitale osservare quanto sia importante avanzare sempre nei confronti di tutti gli scolari e di tutti gli studenti le richieste che li valorizzino al meglio, ricordando che ogni esonero, ogni facilitazione ed ogni dispensa non necessari sono un danno irreparabile, non un’espressione di magnanimità: soprattutto per quei casi in cui il disturbo specifico non sia riconducibile a cause neurobiologiche. Così come l’abuso protratto di una stampella può compromettere le capacità di deambulazione, molte scelte didattiche operate da insegnanti erroneamente considerati soccorrevoli e ligi alla norma dalle famiglie, si rivelano distruttive ed escludenti. Non c’è nulla di peggio, in tema di scuola, del perseguire l’inclusione attraverso il successo formativo fasullo.
Verità oggettiva
Come se ne può uscire? La risposta è certamente complessa. Si tratterebbe almeno di operare sul piano normativo, viste le genericità e le contraddizioni che non aiutano il lavoro degli insegnanti; si tratterebbe di approfondire la fase diagnostica, in modo da distinguere precocemente i casi di dsa dai numerosissimi casi di ritardo di lettura, scrittura e calcolo, come suggerito dal dottor Zappella. Per quello che ci riguarda è nostra intenzione rilevare l’ipocrisia attuale. In presenza di certe concessioni il percorso scolastico dello studente con dsa non è soltanto diverso, ma è obiettivamente più agevole per la semplice riduzione delle richieste che gli vengono fatte. Non stiamo affatto dicendo che il percorso scolastico di uno studente con dsa sia un percorso ch’egli percepisca come comodo, cioè esente da difficoltà. Affermiamo però con forza che: a) la fatica e l’impegno sono elementi soggettivi, difficilmente quantificabili e ancor più difficilmente valutabili, e noi non possiamo accontentarci di fondare le nostre aspettative sopra labili impressioni; b) gli insegnanti devono attestare l’acquisizione delle conoscenze, della loro qualità e della loro quantità. Non esiste un solo motivo razionale per abbandonare questo paradigma a favore del paradigma dello sforzo soggettivo. Lo scopo della scuola è istruire ed accertare l’avvenuto apprendimento, almeno fino a quando crederemo nel valore della conoscenza come verità oggettiva.
Post scriptum
Si usa dire che alcuni studenti sono “neurodivergenti”: sono portatori di una diversità di cui non hanno alcuna colpa. Si dice anche che è bene che abbiano le stesse possibilità di tutti gli altri. È tutto giusto. Ma avere la possibilità di apprendere e di vivere il confronto con gli altri non significa avere per forza successo, raggiungere tutti i traguardi prefissati. Molti confondono –nella scuola ossimorica del successo formativo garantito– il diritto allo studio con il diritto alla sufficienza ad ogni costo. La scuola fa quello che è possibile fare (e si può certo discutere delle sue eventuali mancanze) per mettere tutti sulla stessa linea di partenza, ma non può sempre riuscire a compensare per intero gli effetti di alcuni disturbi specifici quando questi condizionino in profondità l’automatizzazione delle operazioni mentali che chiamiamo apprendimento. L’impotenza della scuola si rivela anche in altri casi, ed è triste; ma è una realtà che dobbiamo accettare, naturalmente dopo aver tentato tutto il possibile.
Noi proviamo ogni giorno simpatia ed affetto verso i ragazzi in difficoltà; solidarizziamo in cuor nostro con le loro famiglie, sovente vittime di limitazioni socio-economiche-culturali, e di altre sfortune indicibili che suscitano gli istinti protettivi più forti e combattivi. Ma ci preme ricordare che le loro difficoltà specifiche hanno una natura innegabile ed oggettiva che non può e non deve essere nascosta, visto che produce effetti reali. La scuola e i suoi professionisti hanno il sacro dovere di trasmettere con empatia la conoscenza, ma proprio in nome della conoscenza e dell’empatia non possono derogare al dovere di perseguire l’apprendimento al più alto grado possibile, anziché il successo vuoto, magari sancito attraverso un confondente ma rassicurante gioco delle tre carte.
NOTE
(1) A conferma del fatto che a volte parlare di diversità è una scelta retorica di comodo vale la pena precisare da subito alcuni termini della questione che stiamo per affrontare. L’importante e pluripremiato neuroscienziato francese Stanislas Dehaene propone una spiegazione mista, di natura neurobiologica e culturale, al disturbo di dislessia; non lascia però spazio ad equivoci, nel senso che non si limita alla constatazione di una diversità funzionale che collide con l’aspettativa sociale (secondo un tipico assunto costruttivista), ma giunge a parlare di “deficit” e “difetti” che riguardano alcune specifiche capacità. Egli scrive: “Da dove viene questo deficit? Nella maggioranza dei casi la dislessia è legata a un difetto nella manipolazione mentale dei fonemi. Il cervello del bambino dislessico presenta diverse anomalie caratteristiche: l’anatomia del lobo temporale è disorganizzata, la sua connettività alterata, la sua attivazione durante la lettura insufficiente. Vi è una forte componente genetica e sono stati identificati quattro geni responsabili. Si sospetta che colpiscano la sistemazione dei neuroni nella corteccia temporale durante la gravidanza” [tratto da: Stanislas Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina editore, Milano, 2009, pp. 271-281].
(2) A tale proposito è possibile trarre utili conferme dal sito dell’Has (l’Alta autorità sanitaria francese) oppure esaminare il già menzionato lavoro di Stanislas Dehaene, che nel suo studio approfondisce il tema delle basi neurobiologiche della lettura e distingue le difficoltà innate da quelle acquisite. Ancora più articolato e accurato nelle distinzioni (purtroppo solo lambite dalla normativa italiana) è poi lo studio collettivo: AA.VV., Dyslexie, Dysorthographie, Dyscalculie, Les édition Inserm, 2007.
(3) Al §2.1 Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento del luglio 2011 riportano: “circa il 20% degli alunni (soprattutto nel primo biennio della scuola primaria), manifestano difficoltà nelle abilità di base coinvolte dai Disturbi Specifici di Apprendimento. Di questo 20%, tuttavia, solo il tre o quattro per cento presenteranno un DSA. Ciò vuol dire che una prestazione atipica solo in alcuni casi implica un disturbo”.
Se ne desume che nell’anno 2011 non solo veniva sottolineata la presenza di un ampio numero di scolari con difficoltà di base che non dovrebbero essere confuse con il disturbo specifico vero e proprio; ma anche che, in quell’anno non molto lontano, le certificazioni di dsa riguardavano al massimo 1 scolaro su 125. Ma già nell’a.s. 2017/2018 (dati MIUR) le certificazioni erano triplicate; e, stando al Focus dell’Ufficio di statistica del Miur, nell’a.s. 2020/2021 esse si attestavano al 5,4%, con un vertiginoso parziale del 6,3% per la sola scuola secondaria, e con un picco del 9,7% nelle scuole secondarie di secondo grado del nord-ovest del paese (quasi 1 scolaro su 10).
(4) Da Michele Zappella, Bambini con l’etichetta, Feltrinelli, Milano, 2021, pp. 11-12.
(5) Lo psicologo cognitivista Daniel T. Willingham (Harvard; università della Virginia) in Perchè agli studenti non piace la scuola, Utet, Torino, 2018, pp. 122-127, scrive in modo illuminante: “Non si può diventare un buon giocatore di calcio se ci si ferma al palleggio, concentrandosi esclusivamente su come colpire la palla, quale parte del piede usare e così via. Processi di basso livello come questi devono diventare automatici, lasciando spazio ad aspetti di alto livello, come la strategia di gioco. Allo stesso modo, non si può diventare bravi in algebra senza conoscere a memoria le operazioni di base della matematica […] la memoria di lavoro [è] il luogo del pensiero cosciente. Il pensiero combina in modi nuovi le informazioni che possono essere tratte dall’ambiente o dalla memoria a lungo termine o da entrambi […] Una caratteristica critica della memoria di lavoro, tuttavia, è che ha uno spazio limitato. Se si cerca di elaborare troppe informazioni o di confrontarle in molti modi diversi, si perde traccia di ciò che si sta facendo. Questa mancanza di spazio della memoria di lavoro è un collo di bottiglia della cognizione umana […] Le persone con maggiori capacità di questa funzione sono migliori pensatori […] Il primo modo per eludere le dimensioni limitate della memoria di lavoro è attraverso la conoscenza. C’è, poi, un secondo modo: possiamo rendere più efficienti i processi che elaborano le informazioni […] I processi mentali, quindi possono essere automatizzati, richiedendo, così, poca o nessuna capacità di memoria di lavoro: i processi automatici aiutano piuttosto che ostacolare. Aiutano perché liberano memoria di lavoro, lasciando spazio per altri processi”.