Don Milani: longevità di un cattivo insegnamento
Le idee di Don Milani, di rado affrontate con la lucidità necessaria, continuano ad attraversare le discussioni in tema di scuola. Egli ebbe grande cuore, ma probabilmente non condusse affatto la giusta battaglia.

Parlare di don Lorenzo Milani (1923-1967) significa ancora oggi fare i conti con le passioni di molte persone che guardano alla sua opera con commossa ammirazione; significa anche fare i conti con l’istituzionalizzazione di quell’ammirazione. Basti pensare ai quattrocentocinquanta istituti scolastici intitolati a don Milani1, che rappresentano bene il credito delle sue idee sulla scuola. Forse per questo pare difficile trovare, sull’argomento, interlocutori il cui distacco sia sufficiente a riconoscere i limiti di quel pensiero pedagogico.
Riconosco alcuni meriti di quest’uomo che, in ciò che fece, riversò le proprie forze ed il proprio impegno come pochi san fare. Militò, agì e scrisse con un’esemplare franchezza evangelica, evitando quei giri di parole e quelle ambiguità che avvelenano la vita morale ed intellettuale; decise di stare dalla parte degli ultimi, amandoli senza porre fasulle condizioni. Forse non fu del tutto accorto nell’analisi della propria passione2; quasi certamente si appoggiò a una visione della storia e dei rapporti di potere che peccano di materialismo; immaginò di ottenere il riscatto dei deboli con l’uso della sferza, con la semina di contrasti e zizzania, più che con l’amore3: quello che qui m’importa è però spiegare perché don Milani – con le sue idee – non fece affatto gli interessi degli ultimi, come invece si racconta.
Per motivare questo giudizio parlerò delle sue idee pedagogiche così come sono esposte nella Lettera a una professoressa, un libro pubblicato nel maggio del 19674 in cui otto suoi allievi si rivolgono a un’insegnante per denunciare le cose che – a lor detta – non funzionano nella scuola. Don Milani ne è l’autore occulto5, anche se formalmente la Lettera si presenta come un testo scritto a più mani, in un italiano mordace e vivo. Gli allievi sono quelli della scuola che egli organizzò, con pochi mezzi e sicura dedizione, a Barbiana, dove fu priore dal 1954. Barbiana era una piccola frazione del comune di Vicchio, in provincia di Firenze. Il libro ebbe un successo clamoroso (cinque milioni di copie vendute) ed una duratura influenza su moltissime persone, anche all’estero.
Perché dare attenzione ad un testo che ha quasi sessant’anni? Prima di tutto perché ho sempre riportato l’impressione che quel testo, come molti altri, sia stato più citato che letto con attenzione, diventando negli anni un catalizzatore di aspettative generiche o acritiche, proprio perché male informate; e poi perché sono convinto del profondo influsso ch’esso ha esercitato sulla mentalità educativa e pedagogica italiana, sul modo di lavorare nelle scuole, oltre che sugli indirizzi normativi che regolano l’istruzione: checché ne dicano i troppi seguaci della Lettera convinti che il suo messaggio sia rimasto inascoltato.
Nella realtà quel modo di pensare si propagò con i discorsi, con le pratiche, con le pubblicazioni, con gli articoli, con le opere teatrali e con quelle cinematografiche, fino ai giorni nostri, in una progressiva santificazione di quelle idee.
Ecco, intendo osteggiare la permanenza di quelle idee, la loro penetrazione capillare anche in luoghi dove prima pareva impensabile, il loro progressivo radicamento, resi possibili dall’assenza di una resistenza argomentata, di un dibattito razionale su di esse, di un’analisi accurata delle parole scritte sulla pagina. Non sono certo turbato dai legittimi tentativi di ricondurre quelle idee al loro contesto storico; semmai dai loro effetti di lungo periodo, che concorrono a spiegare lo stato in cui versa la scuola di oggi.
Scegliere il nemico sbagliato
Comincio col dire che alcune situazioni denunciate da don Milani e dai suoi ragazzi sono incresciose; le vicende familiari ad esse connesse sono sovente toccanti. Nonostante la pubblicazione di norme nazionali che insistono sull’importanza della scolarizzazione, negli anni Sessanta persistono disparità nella dislocazione delle scuole: in alcune zone è impossibile frequentare le lezioni senza compiere lunghi tragitti. Come direbbe don Milani, in quegli anni la pubblica amministrazione pare più attenta a coloro che hanno già buone possibilità di acculturamento piuttosto che a coloro che vivono in aree periferiche, segnate dalla marginalità culturale. La Lettera riporta in appendice parecchi dati che suffragherebbero questa visione sconsolante. Sotto questo specifico aspetto la denuncia dei ragazzi di Barbiana è, almeno in parte, legittima. Fin dal principio della Lettera ci sono però troppe cose che non vanno. Non funzionano soprattutto, come proverò a dimostrare, la scelta della destinataria e le soluzioni invocate o pretese.
La Lettera infatti non è indirizzata al provveditore agli studi, o all’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Gui, in qualità di garante del diritto ad una buona istruzione per tutti, oppure – meglio ancora – al ministro per i lavori pubblici come garante del diritto di accedere a strutture scolastiche dignitose, senza viaggiare per due ore di primo mattino. La Lettera è indirizzata ad una professoressa in rappresentanza di un’intera categoria: la colpevole è lei. La denuncia non è rivolta a coloro che dovrebbero provvedere ad erogare risorse aggiuntive a sostegno dei tanti bambini e ragazzi svantaggiati. No. La denuncia è di tipo morale, ed è imperniata sull’odio di classe; è rivolta a una professoressa colpevole d’avere bocciato tre ragazzi anche se erano poveri.
Che cosa si rimprovera veramente a questa insegnante? Non le si rimproverano i modi autoritari o poco comprensivi nei confronti di chi, per esempio, arriva ogni mattina da lontano. Capita infatti che ella dica:
«Quando ci sono io nella prima ora prendi pure l’altro treno, tanto nella prima mezz’ora interrogo»6
Questa disponibilità viene, anzi, rinfacciata all’insegnante, perché è percepita come una mollezza. Stando alle descrizioni degli stessi autori della Lettera, a Barbiana, nella scuola di don Milani, la vita è molto dura. Ricorda parecchio l’autoritarismo spiccio della scuola fascistizzata di poco più di due decenni prima:
Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare […]
Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica7.
[…]
Noi per i casi estremi si adopra anche la frusta.
Non faccia la schizzinosa [rivolgendosi alla professoressa] e lasci stare le teorie dei pedagogisti. Se vuol la frusta gliela porto io, ma butti giù la penna dal registro8.
Alla professoressa non si rimproverano nemmeno le lacune culturali, o una mancanza di coscienza pedagogica o di adeguate strategie didattiche (la pedagogia semmai è contestata alla radice). Infatti, nel giro di poco tempo, i ragazzi di Barbiana, certo senza gran formazione metodologica, diventano essi stessi maestri dei loro compagni: faranno i maestri come l’han visto fare al loro maestro. Alle lacune nella preparazione culturale, secondo don Milani e i suoi, si ovvia con la passione, con il coinvolgimento:
Un professorone disse: «Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per un ragazzo una necessità fisiopsico…».
Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline.
Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: «La scuola sarà sempre meglio della merda»[…] Lei non sa fare scuola come me9.
La seconda materia sbagliata [dopo il latino] è la matematica. Per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari10.
L’accusa alla professoressa non riguarda nemmeno quelle idee che, gradualmente, di lì a qualche anno, in Italia sarebbero diventate le bandiere dei sostenitori della scuola teorizzata da John Dewey (1859-1952), e cioè la partecipazione attiva degli allievi e la centralità dello studente rispetto al fare scolastico tradizionale. A Barbiana il maestro va ascoltato senza sollevare obiezioni:
M’han detto che in certe scuole americane a ogni parola del maestro metà della classe alza la mano e dice: «Io sono d’accordo». L’altra metà dice: «Io non sono d’accordo». La volta dopo si scambiano le parti seguitando a masticare gomme con impegno.
Un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille. Non deve avere soddisfazione. A scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro11.
Se l’accusa mossa alla professoressa non riguarda nemmeno il metodo didattico, l’obiettivo è un altro. L’accusa, come ho detto, ha un impianto morale e un corredo ideologico tipico di quegli anni. Vale la pena d’approfondirli partendo dall’interpretazione del contesto sociale e culturale fatta dagli stessi autori della Lettera.
Rousseau, il buon campagnolo e il cattivo cittadino
I ragazzi del paese di Vicchio (quello di cui Barbiana non è che una frazione, e che conta oggi ottomila anime) sono percepiti come sfrontati, diversi dai ragazzi di Barbiana. A Barbiana sono molto più timidi. I ragazzi di Vicchio sono descritti come «contorti»: forse più civili ed urbani, hanno perduto quella sorta di naturalezza primigenia, non sono avvezzi alla fatica, sono disonesti:
[…] consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio.
[…] Cercavano perfino di copiare12.
Secondo questa visione i ragazzini di Barbiana paiono più buoni. Sono più buoni e candidi perché sono più poveri, isolati, lontani, appartenenti a una cultura rurale. Considerano un «privilegio» lo stare a scuola perché sanno che ad altri milioni di bambini ciò non è concesso; oppure sono più buoni perché non sono ancora stati infettati dalle malizie cittadine e dalle aberrazioni della scuola ordinaria. Fa qui capolino, nella sua perniciosità mai estinta, una visione della società di ascendenza rousseauviana e, entro certi limiti, di ascendenza marxista, che tanto ha agito sulla pedagogia e sulla coscienza italiana.
Prima di tutto c’è il fastidio antimodernista, quasi luddista, per il mondo urbano delle macchine e della tecnica, che contribuisce a cancellare le qualità morali delle persone. In un capoverso intitolato «soli come cani» i ragazzi di Barbiana si rivolgono a tutti i cittadini come la professoressa per stigmatizzarne un inizio di disumanizzazione:
Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per ignorare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in faccia e non entrare in casa13.
In molti passi della Lettera la cultura cittadina è messa in relazione con un atteggiamento di indifferenza politica e civile che affliggerebbe i giovani studenti, latori di un «fascismo potenziale»:
La maggioranza dei compagni che ho trovato a Firenze non legge mai il giornale. Chi lo legge, legge il giornale padronale14.
Nella frazione di Barbiana – in questo sogno romantico – la situazione è ben diversa, e pare corrispondere ad un mondo morale incorrotto. Per i ragazzi di don Milani la conquista della cultura equivale ad una presa di coscienza del proprio ruolo sociale, dell’impegno richiesto a tutti loro; ma è anche una presa di coscienza del valore primigenio di quella terra povera e della sua gente che non sa nulla di libri e di scuola. Il mondo contadino non è ancora perduto, mantiene una connessione con lo stato originario di natura e il suo popolo ne sa riconoscere la magia. I ragazzi di Barbiana lo dipingono con toni da idillio campestre:
A lei [professoressa] rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa chi sono né dove vanno.
Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che e dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami? […]
Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno avuta e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, filmarla15.
In questa visione bucolica anche il sistema di istruzione ordinario, proprio come la tecnica e come la città, svolge un compito di contaminazione della spontaneità originaria e dell’intelligenza creativa dei ragazzi del Mugello, che tanto devono alle fantasticherie di Rousseau sul bon enfant e sul bon sauvage16; la scuola ordinaria promuove l’arrivismo e l’indottrinamento delle menti, prepara ad una forma di esistenza fasulla, segnata dal potere quale entità maligna, che coopta i propri scherani dentro le aule:
I maestri valgono perché sono stati poco a scuola.
I professori sono quel che sono perché son tutti laureati17.I ragazzi arrivisti accettano l’imposizione, se la imparano a mente. Gli importa solo di passare e di rifare il gioco quando saranno professori18.
Al di là del suo debito verso altre opere (e probabilmente anche verso la recente rivoluzione culturale maoista, come intuì Pasolini) è giusto partire da qui, cioè dall’ideologia che fa da cornice alla Lettera e prepara la ribellione dei suoi autori, forse in rappresentanza di molti bambini e ragazzi provenienti dai dintorni di Barbiana.
Un’idea di eguaglianza molto confusa
Secondo don Milani e i suoi ragazzi esiste una condizione originaria di uguaglianza19 di tutti i bambini, che la società moderna vïola, dando la stura a tutte le disuguaglianze e a tutte le ingiustizie. Ma si badi bene: l’obiettivo dei ragazzi di Barbiana e di don Milani non pare tanto la difesa dei sacrosanti diritti di tutti i bambini, l’attuazione della pari dignità di fronte alla legge, per la quale ognuno di noi si dovrebbe battere. L’obiettivo è un altro, ed è l’eguaglianza degli esiti scolastici di tutti i bambini e di tutti i ragazzi. Anche di quelli svogliati: ci sarà pure un «rimedio» alla svogliatezza! soprattutto alla luce del fatto che la svogliatezza affligge allo stesso modo i ragazzi ricchi, benché per loro il rimedio si trovi:
Anche i signori hanno i loro ragazzi difficili. Ma li mandano avanti.
Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio.
Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più è colpa nostra e dobbiamo rimediare20.
Quest’ingannevole argomentazione è importante perché lascerà traccia nel modo di pensare di molti, anche in circostanze lontanissime dal vissuto dei ragazzi di Barbiana. Prima porta l’attenzione su una verità, e cioè che le difficoltà dei ragazzi, quando essi sono figli altrui, talvolta presentano le facili sembianze della svogliatezza o del «cretinismo». In seguito l’argomentazione porta l’attenzione su una mezza-verità, e cioè che quelle stesse difficoltà, osservate da vicino, in un rapporto di autentica familiarità («standogli accanto»), si rivelano per quello che sono davvero, e cioè sintomi di disagi e di carenze cui si può porre «rimedio» (cosa non sempre vera, purtroppo: capita che le difficoltà dei ragazzi siano strutturali; e ancor più spesso capita che esse siano il prodotto di pesanti fattori di contesto ai quali la scuola non può porre rimedio: se non facendo finta di non vedere le difficoltà). Infine, per mezzo di un’ingannevole forzatura, sulla base delle due premesse parzialmente vere, l’argomentazione rinuncia alla logica: siccome ogni ragazzo svogliato (o in difficoltà) può essere avvicinato, compreso e sostenuto, allora ogni disparità tra le condizioni degli allievi di fronte al compito scolastico sarebbe il prodotto delle «colpe» di qualcun’altro. Anche altrove nella Lettera, parlando di riforme auspicate, è scritto:
Tutti i ragazzi sono adatti a far la terza media e tutti sono adatti a tutte le materie21.
Questa asserzione può essere letta almeno in due modi. È vero che, nella prospettiva di un sistema d’istruzione flessibile, cioè al servizio dell’apprendimento dei ragazzi, e non il suo contrario, la scuola dell’obbligo non può costituire uno sbarramento culturale troppo selettivo, perché essa è un’istituzione finalizzata alla trasmissione di conoscenze, capacità critiche ed abilità di base alla più ampia fascia della popolazione. Tuttavia, a bene guardare, non potrà mai esistere una soglia culturale tanto bassa che per qualcuno non sia già troppo alta: infatti non esistono solo differenze cui è possibile – almeno in linea di principio – porre rimedio con strumenti didattici e pedagogici; esistono anche casi ai quali la scuola, sul piano degli apprendimenti, non può che porre un rimedio necessario ma parziale (vere patologie, disturbi di varia natura, ma anche configurazioni familiari e culturali su cui la scuola non ha potere) quand’anche possa fare molto dal punto di vista dell’inclusione. Da ciò segue che una scuola che accomodi sempre al ribasso i propri obiettivi culturali a partire dalle differenze tra gli studenti è una scuola destinata a toccare presto l’obiettivo zero, per una pura questione matematica: in un evidente controsenso rispetto agli scopi dichiarati.
La precedente citazione può essere letta anche da una prospettiva individuale, e credo cambi poco. Non penso sia giusto affermare che nasciamo tutti uguali e che, solo in seguito, la società, negando ad alcuni ciò di cui essi han bisogno per raggiungere il successo scolastico, corrompa quell’iniziale stato di uguaglianza, sempre immaginando che quell’uguaglianza originaria esista22.
Facciamo per un istante una riprovevole ed immaginaria ingiustizia e consideriamo a parte le sorti di quei bambini che, con evidente improprietà, qualcuno ritiene gli unici diversi (parlo delle molte forme di disabilità): siamo davvero persuasi che tutti i bambini, se non viene fatto loro un qualche torto, siano tutti interessati e versati allo stesso modo di fronte a un compito da eseguire, sia esso scolastico, sia extrascolastico? Quando si scrive «tutti sono adatti a tutte le materie» si intende davvero dire che, di fronte ai compiti scolastici, che sono una parte della realtà, ogni bambino risponde allo stesso modo? Basta davvero che nessuno ci traumatizzi, trascuri, dimentichi per far sì che tutti sviluppiamo gli stessi interessi ed attitudini, specie verso la scuola?
Non oseremmo mai dire che tutti i bambini corrono, intonano, raccontano le barzellette, riconoscono i volti e disegnano il proprio gatto con i medesimi risultati; e non oseremmo nemmeno lamentarcene, sapendo bene che è pressoché impossibile pianificare lo sviluppo delle capacità e delle attitudini dei bambini, e che esse dipendono spesso da alchimie imponderabili, da reazioni imprevedibili per le quali sarebbe erroneo attribuire a qualcuno delle colpe; eppure, per quel che riguarda le abilità scolastiche, siamo pronti a fare un’eccezione, ed a cercare i colpevoli promotori dello svantaggio.
Non sto affatto sostenendo che le differenze nelle prestazioni scolastiche si riducono alle predeterminazioni dei geni, alla biologia, alle attitudini innate, come qualcuno penserà da qualche capoverso. Sto sostenendo che le inattitudini e le attitudini dei bimbi maturano all’interno del contesto familiare già dai primi mesi di vita, anche senza che i genitori e la società si macchino di colpe: a meno che essere individui unici non sia già una colpa. Sto sostenendo che la perfetta eguaglianza delle condizioni di partenza di fronte alle richieste – poniamo – della scuola è solo un sogno, perché anche quando sarà stato fatto tutto il necessario per colmare le molte ingiustizie della vita, i bimbi si esprimeranno ancora in quella infinita diversità che è loro propria, cioè palesando interessi, curiosità ed abilità differenti. Sto sostenendo che spesso questa diversità non è il frutto di colpe in senso stretto, benché sia certo l’effetto di cause. Sto sostenendo che le differenze nelle prestazioni scolastiche debbono essere ridotte, e se possibile annullate, per quanto nelle nostre forze, con interventi consistenti di recupero e sostegno ai più deboli; ma il nostro obiettivo principe non può essere la cancellazione a oltranza della differenza: ciò vuole dire perseguire la piatta omologazione sociale, oppure che la scuola è giunta al grado minimo delle sue richieste. Sto sostenendo che la riduzione del divario culturale dipendente dalla povertà socioeconomica è davvero auspicabile; ma quest’opera di riduzione non può gravare per intero sulla scuola, poiché si tratta semmai di agire sulle cause sociali ed economiche del divario culturale, e non solo su quest’ultimo: magari per occultarlo ipocritamente.
L’idea secondo cui «i ragazzi nascono uguali» è un’ingenuità implicita ricorrente23. È ingenuo sostenere che due racconti o due concerti sono uguali finché non hanno inizio: le prime sequenze narrative ed armoniche li differenziano già in modo irrecuperabile, proprio come avviene nei primi mesi di vita dei bambini, che da subito esprimono una reale personalità, sebbene incompiuta. Certo è bene che le trame si snodino in modo chiaro, e che le melodie siano eufoniche, ma senza illudersi che, messi nelle giuste condizioni, gli autori possano giungere ai medesimi risultati. Fuor d’allegoria: i bambini che non raggiungono il completo successo scolastico ed universitario hanno tutto il diritto di non essere considerati delle anomalie di sistema, e di perseguire la propria felicità facendo altro dopo aver raggiunto un’istruzione di base irrinunciabile, ma senza alcuna occulta gratuità.
L’adempimento dell’obbligo scolastico è un traguardo davvero auspicabile, ragionevole, di civiltà; tuttavia i suoi esiti non possono essere dati per scontati a partire da una supposta uguaglianza di tutti. Se vogliamo che quest’obbligo incida davvero nella vita di coloro che lo espletano, dobbiamo prepararci all’eventualità che qualche allievo gli opponga resistenza, come per qualsiasi altra cosa della vita: per il semplice fatto che le cose che vanno bene per tutti sono anche quelle che non richiedono alcuna trasformazione soggettiva; mentre l’istruzione è, di per sé, la più profonda sollecitazione al cambiamento.
Immagino che per qualcuno la mia obiezione alla tesi sull’uguaglianza naturale si presti ancora a fraintendimenti di tipo eugenetico («la teoria razzista delle attitudini», la chiamavano a Barbiana). Purtroppo non ci sono molti argomenti utili a convincere coloro che non vogliono intendere e, tra questi argomenti, credo che il migliore sia questo: le discriminazioni non devono essere combattute negando le differenze, ma riconoscendo a tutte quelle differenze una pari dignità sul piano morale, un’uguaglianza effettiva di fronte alla legge. Mi pare ovvio che l’affermazione secondo cui i bambini dei ricchi sono più intelligenti e capaci di quelli poveri è un’assurdità falsificata ogni qual volta si investe con profitto per compensare gli svantaggi economici e materiali; ma quell’affermazione è un’assurdità pari a quella secondo cui siamo tutti ugualmente capaci in tutto ciò che facciamo.
La lotta non va fatta alla differenza su cui si fonda la nostra stessa ricchezza come esseri umani; la lotta va fatta alle grandi ingiustizie materiali, alle sperequazioni economiche pazze, quando impediscono che quelle diverse attitudini individuali trovino la loro valorizzazione. Le due cose sono ben distinte, e la mancanza di questa distinzione non può che produrre sciagure.
Mi si obietterà: «ma la lotta a quelle ingiustizie materiali è troppo fiacca, o addirittura inconsistente. Anche ammettendo che sia come dici tu, nei fatti i ragazzi ricchi raggiungono il successo scolastico molto più frequentemente di quelli poveri, proprio come se le attitudini di cui parli coincidessero con le opportunità economiche e sociali, già agli esordi, nella scuola primaria, e poi anche durante il corso di studi». A quest’obiezione rispondo dicendo che questo è spesso vero, ma ciò non giustifica per nulla la scelta di coloro che – come gli autori della Lettera – non riuscendo a rimuovere una palese ingiustizia, vorrebbe nasconderne gli effetti dannosi pensando così di ripristinare il giusto ordine delle cose.
Il compito che ci spetta non è facile. Si tratta di accettare un’idea complessa di intelligenza umana, che vada pure oltre le conoscenze e le abilità scolastiche tradizionali; si tratta anche di riconoscere alla scuola il diritto di continuare ad investire su quelle specifiche abilità attraverso le quali la cultura umana s’è espressa fino ad ora: sempre che la si voglia conservare e far fruttare. Si tratta infine di accettare l’idea che, dopo aver fatto ciò che è realisticamente possibile per recuperare lo svantaggio dei bambini più sfortunati, la scuola continui a distinguere, a seconda dei diversi campi e dei diversi momenti, coloro che sanno da coloro che non sanno, in analogia con quanto avverrebbe in un conservatorio musicale, in una squadra di atletica, oppure in una scuola per ragazzi sordi: gli allievi conoscono l’uso dei segni? sì o no? «Se non conoscono l’uso dei segni allora non sono pronti».
I ragazzi di Barbiana e don Milani, invece, non hanno dubbi: certe distinzioni sono di per sé ingiustizie. Di conseguenza forniscono una soluzione sbagliata a un problema reale di quegli anni. Per loro non è stato fatto tutto ciò che era possibile fare per recuperare i compagni fragili e quindi non li si può penalizzare con la bocciatura. Gli insegnanti rappresentano lo Stato, la Repubblica inottemperante. La colpa è della professoressa o, più in generale, degli insegnanti che conoscono le situazioni soggettive dei propri alunni. Agli insegnanti spetterebbe (non si sa come) il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’eguaglianza e la libertà dei cittadini; e non il compito di rimuovere l’ignoranza quale effetto di quegli stessi ostacoli.
Così è cominciato il declino.
Aiutare facendo carte false?
In una sezione intitolata «toccava a voi», i ragazzi di Barbiana si rivolgono alla professoressa a proposito dell’abbandono della scuola da parte di Gianni:
[…] il babbo di Gianni a 12 anni andò a lavorare da un fabbro e non finì neanche la quarta […] Sperava in un mondo più giusto che gli facesse eguale almeno Gianni […]
Per lui l’articolo 3 suona così: «È compito della signora Spadolini [la professoressa] rimuovere gli ostacoli…»
[…] Fra l’altro vi paga anche bene. Lui che prende 300 lire l’ora, a voi ve ne dà 4300.
[…] non può rimuovere gli ostacoli lui che li ha addosso24.
L’aspettativa è espressa in modo plastico, materiale. Lo Stato non ha fatto nulla perché il padre di Gianni fosse messo nella condizione di poter sostenere in modo adeguato il figlio negli studi (stimolandolo intellettualmente; pagandogli delle ripetizioni private come fanno i genitori abbienti; accettandone l’eventuale bocciatura con la conseguente perdita di tempo; rintuzzandone il desiderio di lavorare per avere soldi propri in tasca) e quindi gli insegnanti dovrebbero rimediare all’inadempienza dello Stato.
Ma cosa intendono i ragazzi di Barbiana quando parlano di «rimozione degli ostacoli» che hanno impedito il pieno sviluppo di Gianni? Che cosa avrebbero dovuto fare gli insegnanti? È semplice: non avendo avuto altro, i ragazzi chiedono che siano rimosse le conseguenze formali dell’ignoranza di Gianni, e non l’ignoranza stessa; chiedono che per il ragazzo ci sia un occhio di riguardo nel momento in cui deve essere assegnato il voto relativo – per esempio – al suo compito in classe.
Ci voleva una mano da parte vostra. La mano l’avete stesa per farlo ruzzolare25.
Per tutti gli insegnanti che hanno osato legare la propria onorabilità al proprio ruolo di giudici imparziali di fronte all’operato dei ragazzi l’accusa è netta:
La più accanita [insegnante] protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie dei ragazzi: «Se un compito è da quattro io gli do quattro». E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla di più ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali26.
L’ultima frase di questa citazione è diventata un emblema di un certo modo di intendere la scuola, che vede nel soddisfacimento dei diversi bisogni individuali una ragione di giustizia. Ne condivido il senso. Eppure quella frase pare proprio scritta dai ragazzi di Barbiana per dare voce ad un’altra idea, e cioè l’idea secondo cui il momento in cui gli insegnanti possono porre rimedio alle ingiustizie sociali ed economiche vissute da molti scolari e studenti è il momento della valutazione dei loro apprendimenti. Se gli insegnanti lo capiranno, anche la loro supposta ambizione di carriera potrà essere salvata senza far troppi danni, con un po’ di flessibilità…
Se la carriera vi preme tanto c’è una soluzione: truccate un po’ gli scritti, correggete qualche errore mentre passate tra i banchi27.
Lo ripeto: gli strali dei ragazzi di Barbiana non colpiscono l’incuria pedagogica, che non viene mai denunciata; il bersaglio sono soprattutto gli esiti formali, i voti insufficienti, l’eventualità della bocciatura. Non è un caso che, secondo gli allievi di don Milani, l’insuccesso scolastico dovrebbe essere decretato solo dopo aver raccolto informazioni sulla situazione familiare dei ragazzi in difficoltà, per contemperare i voti con le loro condizioni personali.
Se le medesime professoresse, con le loro discutibili pratiche didattiche, avessero alzato i voti dei compiti in classe e promosso Gianni assieme a tutti gli altri ragazzi svantaggiati, ecco, allora giustizia sarebbe stata fatta. Tuttavia l’optimum sarebbe l’abolizione di ogni voto, di ogni esame e delle bocciature, almeno nella scuola dell’obbligo28:
[…] gli esami vanno aboliti29.
Non bocciare30.
La scuola selettiva è un peccato contro Dio e contro gli uomini31.
I ragazzi di Barbiana immaginano che l’aiuto consista in questo: nel far passare per adeguata una preparazione culturale che non lo è, in nome delle tante ingiustizie del mondo. Si tratta di far discendere gli esiti didattici di Gianni dall’uguaglianza sancita dalla Costituzione, in un’evidente confusione tra pari dignità di fronte alla legge ed uguagliamento degli individui a partire dalla scuola. L’impronta di don Milani in alcuni passaggi è tangibile, come quando oppone ad una professoressa la gnomica evangelica, esortandola a promuovere tutti:
«Passare chi non lo merita è un’ingiustizia verso i più bravi» ci disse un’altra animuccia delicata.
Chiami Pierino [il ragazzo ricco] in disparte e gli dica come disse il Padrone ai vignaioli: «Te ti passo perché sai. Hai due fortune: quella di passare e quella di sapere. Gianni lo passo per fargli coraggio, ma ha la disgrazia di non sapere»32
In questo passaggio stilisticamente efficace don Milani pare delinearci la sua idea pedagogica, colma di uno spirito evangelico che mi sembra equivocato. La parabola degli operai della vigna concerne soprattutto la bontà infinita di Dio ed il mistero della grazia, ovvero del ricevere un dono gratuito, senza meriti propri. Prima di tutto non paragonerei la bontà di Dio a quella di un insegnante. Egli è chiamato dagli umani a dar prova di terrena professionalità, non di amore divino; anche perché, per tradizione, l’infinito amore divino si accompagna ad un’infinita intelligenza che di solito manca agli insegnanti.
Inoltre l’argomentazione nasconde l’insidia di un nuovo pseudo-logismo: «te ti passo perché sai. Hai due fortune: quella di passare e quella di sapere». Un insegnante che dica allo studente capace che ha due fortune (come se si trattasse di enigmatiche scelte del Fato) gli sta solo confondendo le idee. L’ammissione alla classe successiva dovrebbe essere una mera conseguenza del sapere dello studente, non un bene aggiuntivo, concesso in modo arbitrario dall’insegnante. Quel sapere è il bene che la scuola persegue, e null’altro. Un insegnante che dica a uno studente che lo promuove anche se questi ha la disgrazia di non sapere, non solo non fa il suo bene, ma non ha nemmeno a cuore la possibilità di porre rimedio alla sua ignoranza. La cultura cede il passo, in modo profetico, al primato della promozione33.
Sul piano della politica scolastica, di fronte all’eventualità che l’insuccesso scolastico riguardi ragazzi poveri e svantaggiati, don Milani e i suoi ragazzi non chiedono tanto un maggiore investimento didattico34, cioè un aiuto specifico, personale ed individuale (ripetizioni, spiegazioni diverse, esemplificazioni35) ad integrare ciò che la famosa professoressa fa per tutti gli scolari, affinché ogni studente sia messo nella condizione di poter colmare lo svantaggio iniziale. No. Per i ragazzi di Barbiana la soluzione al reale problema dell’ineguaglianza delle condizioni di partenza è la caritatevole abolizione delle differenze finali (e di tutto ciò che le rivela) in ordine alla preparazione ed alla padronanza delle diverse discipline: non si deve badare al fatto che Pierino sa, mentre Gianni non sa; è una violazione del principio di uguaglianza.
La cultura da buttare
Credo però che ci sia anche dell’altro. Non penso che la Lettera avrebbe prodotto gli effetti duraturi e dirompenti che produsse se la logica truffaldina che ho appena esposto fosse stato il suo unico ingrediente, pur anche in un momento di grande fermento sociopolitico. Ci sono altri ingredienti non secondari, che serve analizzare. L’accusa che i ragazzi di Barbiana muovono alla professoressa si addentra anche nelle logiche del programma scolastico:
La […] soddisfazione fu di cambiare finalmente programma.
[…]
Gianni non sapeva mettere l’acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del Consiglio Comunale.
Voi coi greci e coi romani gli avevate fatto odiare tutta la storia. Noi sull’ultima guerra si teneva quattr’ore senza respirare36.
La Lettera trasuda quella predilezione per la sfera praticistica ed utilitaria della conoscenza che è ben nota anche nella scuola di oggi. Purtroppo, benché quella predilezione sia davvero datata, ancora c’è chi s’illude ch’essa apra le porte di un futuro radioso: lo studio dei contratti di lavoro, la discussione politica, la lettura del quotidiano, la matematica del quotidiano. Quali meraviglie per la mente! La grammatica – per i ragazzi di Barbiana – conta fino a un certo punto, perché la partecipazione al «mondo dei grandi», fatto di lavoro ed esperienza vissuta, controbilancia le carenze scolastiche tradizionali37che, non avendo alcuna utilità pratica, perdono di valore. Le lingue straniere vengono ridotte ad uno strumentario idiomatico buono solo a cavarsela in situazioni di necessità corporale, e l’uso della lingua italiana suscita un malcelato fastidio, perché essa appare come un prodotto dei ricchi buono solo a metter in difficoltà i poveri; anzi, ideato allo scopo di metterli in difficoltà:
Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.
Altrove lo studio della geometria solida (che tanta parte ha nello sviluppo delle capacità critiche, giacché guida il passaggio dal pensiero concreto al pensiero astratto) diventa oggetto di ridicolizzazione e fastidio, perché presenta aspetti di apparente inutilità che costano ai ragazzi più fragili immani sforzi di concettualizzazione:
Il problema di geometria faceva pensare a una scultura della Biennale: «Un solido è formato da una semisfera sovrapposta a un cilindro la cui superficie è tre settimi di quella…»
Non esiste uno strumento che misuri le superfici. Dunque nella vita non può accadere mai di conoscere le superfici e non le dimensioni. Un problema così può nascere solo nella mente di un malato38.
L’ipotesi che l’utilità di certe esercitazioni grammaticali o di calcolo, concettose ed astratte, risieda proprio nello sviluppo delle abilità di pensiero necessarie a comprendere la complessità del reale non viene nemmeno considerata.
Anche la lettura dei classici è vissuta come un oltraggio al buon senso, proprio perché innecessaria:
Finita la lettura della posta mi chiudo di nuovo sull’Eneide.
Leggo un episodio che piace a lei [alla solita professoressa]
Due farabutti sbudellano la gente tra il sonno […]
Il tutto in una lingua nata morta [il riferimento è alla traduzione di Annibale Caro]. Non era necessario mettere l’Eneide in programma. L’ha voluta sceglier lei. Non glielo posso perdonare39.
Le «cose morte» non servono, andrebbero abbandonate. I ragazzi di Barbiana, anche quando intendono diventare a loro volta capaci maestri, non attribuiscono alcun valore alla conoscenza disinteressata, alla maturazione di una sensibilità estetica, alla conoscenza di un canone culturale che ha segnato la storia dell’occidente. Essi hanno trovato una diversa via alla realizzazione personale, grazie a don Milani:
i miei compagni [quelli che hanno fatto scuola a Barbiana] hanno sfondato da per tutto. Alcuni son già sindacalisti a pieno tempo e riescono. Altri sono in officina a Firenze e non si fanno intimidire da nessuno […]
La nostra cultura regge da per tutto dove è vita vera40.
Come può darsi un attacco di questo tipo, che abbraccia persino l’idea che la cultura trasmessa nelle scuole non sia «vita vera»? Il fatto è che anche l’acquisizione delle abilità e delle conoscenze scolastiche – secondo i ragazzi di Barbiana – altro non sarebbe che un succubo adeguamento ai modelli di pensiero «della ditta», cioè dei ricchi cattivi: una sorta di cedimento, di sottomissione a un sistema di cui i poveri sono le vittime.
Pur sapendo che don Milani non espresse mai apprezzamento verso il comunismo, si coglie in queste parole la traccia del pensiero marxista, in quegli anni senz’altro pervasivo in molti ambienti. È evidente soprattutto nel credo, professato nella Lettera, secondo cui le idee dominanti sono sempre espressione esclusiva degli interessi della classe dominante ed hanno valore solo nella misura in cui si accetta il sistema sociale su di esse costituito. Certo, ascrivere la categoria degli insegnanti, durante gli anni Sessanta, alla classe dominante è una grottesca forzatura; nella Lettera si arriva persino a insinuare il sospetto che essi partecipino ad un vero complotto, ad una cospirazione di ricchi e di insegnanti ordita ai danni dei poveri:
La cultura v’è toccata farvela sui libri. E i libri sono scritti dalla parte padronale. L’unica che sa scrivere41.
Spesso c’è venuto fatto di parlare del padrone che vi manovra. Di qualcuno che ha tagliato la scuola su misura vostra. Esiste? Sarà un gruppetto d’uomini intorno a un tavolo con in mano le fila di tutto: banche, industrie, partiti, stampa, mode?
Noi non lo sappiamo […] A non lo dire bisogna far gli ingenui. È come sostenere che tante rotelle si son messe insieme per caso42.Siete tutti d’accordo. Ci volete schiacciare. Fatelo pure, ma almeno non fingete d’essere onesti. Bella forza essere onesti su un codice scritto da voi e su misura vostra43.
Ogni pretesa didattica avanzata dalla professoressa nei riguardi dei suoi allievi più poveri affonda le radici nella cultura distillata dai ricchi, che è come un’«infezione» da cui guardarsi, che offende quel principio di eguaglianza in base al quale si doveva evitare che Gianni abbandonasse gli studi:
Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di «lingua». L’ha detto la Costituzione pensando a lui [Gianni]
Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione. E Gianni non è più tornato neanche da noi44.
Arrivai persino a pensare che aveste ragione voi [insegnanti]. Che la cultura vera fosse la vostra […] Ci mancò un pelo che diventassi dei vostri. Come i figli dei poveri che vanno all’università e cambian razza.
Ma non feci a tempo a corrompermi45.
Stando così le cose la cultura che i professori sottopongono ai loro studenti è un’efficace preparazione alle discriminazioni che caratterizzano la società comandata dai ricchi. La conoscenza non è uno strumento di riscatto plausibile perché non fa altro che inquinare l’anima di chi la possiede, senza vantaggi che non siano organizzati attorno all’idea del dominio:
Ogni volta [Pierino] ha visto la sua pagella migliore di quella dei compagni che ha perso. I professori che hanno scritto quelle pagelle gli hanno impresso nell’anima che gli altri 99 sono di cultura inferiore.
A questo punto sarebbe un miracolo che la sua anima non ne sortisse malata.
È malata davvero perché i professori gli han detto una bugia. La cultura di quei 99 non è inferiore, è diversa.
Allora i ragazzi di Barbiana non ambiscono a una scuola che trasmetta e verifichi l’acquisizione di ciò che di solito chiamiamo «sapere». Ambiscono piuttosto a una scuola in cui il sapere sia costruito attorno alla propria biografia individuale, alla propria angusta prospettiva, dopo una sorta di azzeramento storico dei significati condivisi; ambiscono ad un sapere agganciato al senso comune della classe sociale di provenienza, alla sapienza popolare, affidata all’oralità, alle prassi quotidiane, e sconfinante in un’idea retorica e sofistica del sapere, impermeabile sia alla conoscenza umanistica, sia a quella scientifica, entrambe ree di un astrattismo concepito ad arte per mettere in difficoltà i poveri:
[…] bisogna sfiorare tutte le materie un po’ alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare […]
I deputati si divisero in due parti. Le destre a proporre il latino. Le sinistre le scienze. Non ci fu uno che pensasse a noi, che ci fosse stato dentro, che avesse faticato a seguire la vostra scuola46.
A Barbiana le nozioni individuali scompaiono, si liberano del debito verso la cultura ereditata per far spazio ad un progetto collettivistico nel quale ogni ragazzo non è che una particella del più ampio sistema sociale47. Poiché quel sistema determina i diritti di ognuno, a nulla valgono gli sforzi per mutare la propria condizione sociale. Anche la trasformazione del proprio punto di vista sulla realtà è vissuta come una rinuncia alla propria originalità sociale in cambio di un’identità sociale corrotta, falsa e infelice. A scuola non serve troppa applicazione alla lingua italiana scritta, latrice di interessi di parte, e – in ultima analisi – inutile come l’intero sapere umanistico:
Basta uno scritto solo in tutto l’anno, ma fatto tutti insieme48.
Pierino del dottore ha tempo di leggere anche le novelle. Gianni no. Vi è scappato di mano a 15 anni. È in officina. Non ha bisogno di sapere se è stato Giove a partorire Minerva o viceversa.
Nel suo programma d’italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici. Lei signora l’ha letto? Non si vergogna? È la vita di mezzo milione di famiglie49.
Credo che questo tipo di logica faccia riflettere. I ragazzi di Barbiana non considerano affatto la possibilità che un metalmeccanico possa trarre vero giovamento dalla letteratura, dall’arte, dalla bellezza fine a se stessa, dal materialmente inutile, a meno che non lo si voglia mantenere nella condizione di un bruto, che è proprio ciò di cui essi si lamentano; ai ragazzi di Barbiana sfugge l’evidenza che il tanto sbandierato contratto di categoria impiega una grammatica ed una sintassi che – piaccia o non piaccia – non son proprie della povera gente del Mugello, ma assomigliano molto a quelle dei libri; ed è perciò un bene che i poveri del Mugello siano messi nella condizione di conoscere a fondo le regole e le logiche dei libri, in modo da capirli senza intermediazioni, anche per difendere da sé i propri diritti50.
Odio e vendetta
La professoressa allora non si doveva vergognare. Anzi, nessun insegnante si deve vergognare di dare importanza anche a cose che possono sembrare lontane dagli interessi immediati delle persone, dal loro utile pratico: perché nella furia d’inseguire gli interessi immediati è nascosto il rischio formidabile che le persone non sappiano più quali siano i loro interessi ultimi. Forse non è un caso che nella Lettera sia espresso anche un profetico auspicio, che gli insegnanti di oggi vedono realizzato nella sua forma più estrema e diseducativa:
Un bel sindacato di babbi e mamme capace di ricordarvi che vi paghiamo noi e vi paghiamo per servirci, non per buttarci fuori.
In un altro passo, vagheggiando la comparsa di un insegnante che risponda finalmente in modo illuminato al messaggio della Lettera, i ragazzi di Barbiana scrivono con parole emblematiche ciò che vorrebbero sentirsi dire da lui:
Comunque quelli di voi che vogliono essere maestri venite a dar gli esami quaggiù. Ho un gruppo di colleghi pronti a chiudere due occhi per voi51.
Per diversi decenni alcuni dei distorti meccanismi di eguagliamento didattico cui ho qui accennato, così come il senso di rivalsa sugli insegnanti da parte delle famiglie, hanno senza dubbio influenzato il quotidiano scolastico italiano, e, non di rado, il legislatore. I ragazzi di Barbiana, ormai anziani, continuano il loro discutibile apostolato accusando ancora gli insegnanti che osano bocciare, violando ogni principio di presunzione di innocenza52. Molti insegnanti hanno recepito quei principi dando vita a un «donmilanismo» dannoso e confuso, intessuto talvolta di rivendicazioni sul piano economico, ma ancor più spesso di acritica adesione ai dettami originari, sul piano didattico e pedagogico.
Non escludo che il portato della Lettera vada persino oltre gli stessi desideri dei ragazzi di Barbiana, ma penso non si possa scordare che le loro argomentazioni si accompagnarono ad esternazioni di fastidio, sfiducia, disprezzo e voglia di vendetta che ancora colpiscono, e perciò non possono non aver lasciato segno, seppure in modo inconscio o inconsapevole. Leggiamo come l’autore, o gli autori della Lettera, si rivolgono agli insegnanti, a metà dell’opera:
Cerco di capirvi. Avete un aspetto così rispettabile. Non avete nulla del criminale. Forse qualcosa del criminale nazista. Cittadino onestissimo e obbediente che registra le casse di sapone
[…]
Temete solo la vostra coscienza. Ma una coscienza costruita male53.Se la maestra muore di voglia di bocciare potrebbe sfogarsi sui figlioli dei ricchi […]
Non vedo l’ora d’esser maestro per levarmi questa soddisfazione. Magari con un nipotino suo54.
Resta forte il sospetto che ad alimentare una critica tanto dura da sconfinare nell’odio di classe tipico di quegli anni55, abbia contribuito l’originario senso di colpa di don Milani56. Egli sentiva forse – nell’intimo – di dover dimostrare ai suoi scolari di meritare tutti i privilegi di cui egli aveva goduto. La sua origine borghese e colta, le velleità intellettuali del padre, le varie possibilità di realizzazione che gli si offrirono lasciarono una traccia indelebile nell’anima di un individuo sensibile alla sorte degli ultimi, in un’Italia che andava crescendo senza curarsi troppo di loro. Ma quella traccia lo condusse a prospettare soluzioni sbagliate; sbagliate allora come oggi, proprio perché contrarie all’interesse di coloro cui don Milani aveva dedicato le proprie battaglie.
Prima di chiudere voglio fornire almeno una delle molte prove che il modo di pensare di don Milani e dei suoi allievi ha raggiunto i piani alti, addirittura quelli del ministero della pubblica istruzione.
Già nell’anno 1980 il linguista Tullio De Mauro, che diverrà ministro della pubblica istruzione tra il 2000 e il 2001, descrivendo con comprensibile soddisfazione l’espansione percentuale della scolarità nella scuola media dell’obbligo aggiungeva:
tuttavia, mentre quest’obiettivo pare ormai non irraggiungibile (nel 1978, come si è detto, mancano otto punti al cento per cento), vengono messi in discussione modi e limiti dell’indubbia espansione della scolarità. Nel 1967 gli autori della Lettera a una professoressa definivano «bugia» gli otto anni di scuola concessi allora a quasi tutte le ragazze e i ragazzi, e chiedevano che fossero otto anni veri, otto anni, cioè, fatti di otto classi diverse. Essi chiedevano dunque la fine delle bocciature nella scuola dell’obbligo e della massiccia presenza di ritardi. Alla fine degli anni Settanta si può considerare che la sacrosanta polemica contro le bocciature nella scuola dell’obbligo ha vinto. Ma la selezione che agiva dieci anni prima non è scomparsa, ha solo trovato forme più sottili per manifestarsi. Un tempo essa, come è stato dimostrato, scaricava addosso ai figli e alle figlie di contadini e operai bocciature a ripetizione. Oggi si ha vergogna (e giustamente) di bocciare nella scuola dell’obbligo. Ma la promozione è spesso solo formale. Esaminando gli scritti e i livelli di comprensione di ragazze e ragazzi che hanno appena terminato l’obbligo, ci si è accorti che, in parecchi casi, vi è una conoscenza insufficiente della scrittura e della lettura […] molti (e di nuovo si tratta dei bocciati di un tempo, figli di lavoratori dipendenti) non sono messi in grado di portarne fuori le capacità critiche e le conoscenze necessarie per vivere e lavorare alla pari in una società complessa come l’italiana.
Le discussioni su queste deficienze qualitative della media obbligatoria non sono restate interamente lettera morta. Tra il 1978 e il 1979 è approvata la revisione dei programmi scolastici […] Essa si propone di orientare il lavoro scolastico in modo che la media dell’obbligo raggiunga i suoi alunni ai livelli reali in cui si trovano e li promuova, non solo in senso burocratico, a condizioni di reale possesso di un nucleo di abilità e capacità operative e intellettuali57.
Ricostruisco di seguito la logica assurda e contraddittoria dello studioso che sarà poi nominato ministro della pubblica istruzione:
1) fino alla fine degli anni Sessanta all’obbligatorietà di otto anni di studi (prevista dalla Legge n. 1859 del 1962 sulla scuola media unica) non corrispondeva un periodo effettivo di otto anni di scuola. Le bocciature erano ricorrenti, e perlopiù a carico di ragazze e ragazzi svantaggiati;
2) per fortuna, a partire dalla fine degli anni Settanta – dopo le lotte di don Milani e di altri – le cose sono cambiate, e gli insegnanti hanno iniziato a vergognarsi di bocciare nel corso dell’obbligatorietà scolastica;
3) la discriminazione a danno degli svantaggiati, una volta diminuite le bocciature, è però proseguita ancora, seguendo forme «sottili» di selezione. È come se De Mauro prendesse le distanze da ciò che ha scritto poche righe prima: al termine del periodo d’obbligo scolastico, durante il quale i ragazzi svantaggiati non sono stati bocciati, essi hanno infatti riportato una scarsa padronanza della scrittura e della lettura – guarda un po’. Ma con quale coraggio se ne stupisce?
4) Per questa ragione, tra il 1978 e il 1979, sono stati modificati i programmi scolastici, abbassando il livello degli obiettivi da perseguire, per far sì che la scuola media dell’obbligo raggiunga finalmente le ragazze e i ragazzi ai «reali livelli in cui si trovano» e «li promuova».
È una logica contorta e disonesta, sempre che sia logica. Pare che a De Mauro non interessasse l’innalzamento del livello culturale di tutti coloro che transitavano dalla scuola dell’obbligo, il dotarli del migliore strumentario critico possibile nelle circostanze date. Eppure, a ben vedere, che cosa era mai la bocciatura se non un prolungamento – per quanto doloroso e costoso – dei tempi necessari a completare un percorso scolastico finalizzato a conseguire certe capacità? Non rappresentava, almeno per quell’epoca, un ragionevole tentativo dello Stato di compensare le disuguaglianze attraverso un investimento educativo più duraturo? Dare ad uno scolaro il tempo necessario a recuperare il proprio svantaggio culturale era davvero solo uno «scaricargli addosso» un inutile gravame? Non era forse un metterlo di fronte al compito che gli spettava, se voleva recuperare il sapere di cui era manchevole e che forse avrebbe potuto fare la differenza nel suo futuro? È così difficile riconoscere che la bocciatura è a tutti gli effetti una pratica di welfare state?
Ebbene pare che a De Mauro interessasse di più evitare forme «sottili» di «selezione», piuttosto che rilevare e combattere le carenze reali degli scolari e degli studenti. Sarebbe stato senza dubbio plausibile mettere in discussione il tipo di investimenti buoni a scongiurare l’abbandono scolastico, a facilitare il recupero degli svantaggi; ma l’incomprensibile promozione del successo scolastico di coloro che erano e restavano in condizione di svantaggio culturale fu una miseria intellettuale che danneggiò innanzitutto quelli che pretendeva di proteggere.
Quella distorsione logica, che rendeva possibile che uno studioso come De Mauro si scandalizzasse assurdamente del perdurare delle insufficienze nella lettura e nella scrittura di molti studenti anche dopo la campagna di colpevolizzazione del meccanismo della bocciatura, deve molto alla Lettera a una professoressa. Non riuscendo ad agire sulle conseguenze inintenzionali delle scelte intenzionali, essa prospettava una soluzione che – purtroppo – a molti sembra ancor oggi l’unica possibile: abbassare il livello degli obiettivi culturali per l’intero Paese, proprio come se la cultura, gratta gratta, non servisse a null’altro che a evidenziare le differenze.
NOTE
[1] Almeno, tanti ne ha contati Agostino Burberi, uno dei primi allievi di don Milani.
[2] So dell’esistenza di un’interpretazione psicoanalitica delle pulsioni che lo stesso don Milani dichiara di provare verso i suoi giovani allievi, e so che se n’è molto discusso. Qui intendo occuparmi solo delle teorie educative espresse nel suo scritto più noto. Chi voglia approfondire veda quanto ha scritto Armando Ermini circa la famosa lettera di don Milani pubblicata in Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini&Castoldi, 1996, pp. 386-391; https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_878_Forteto_5_Lettera_don_Milani.pdf.
[3] Come egli stesso ebbe modo di dire di sé.
[4] Qui mi rifarò alla seconda edizione speciale dell’opera: Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa. Quarant’anni dopo, Libreria editrice fiorentina, 2007.
[5] Probabilmente per evitare i provvedimenti di censura in cui era già incorso il 15 dicembre 1958, a causa della pubblicazione delle sue Esperienze pastorali.
[6] Ibidem, pag. 128.
[7] Ibidem, pag. 12.
[8] Ibidem, pagg. 82-83.
[9] Ibidem, pagg. 12-14.
[10] Ibidem, pag. 118.
[11] Ibidem, pag. 129.
[12] Ibidem, pag. 15.
[13] Ibidem, pag. 116.
[14] Ibidem, pag. 108.
[15] Ibidem, pag. 116-117.
[16] Per l’indiscutibile rapporto di continuità tra il pensiero di Rousseau e quello di don Milani si veda Alberto Giovanni Biuso, Contro il sessantotto, Villaggio Maori edizioni s.a.s., Catania, 2012.
[17] Ibidem, pag. 114.
[18] Ibidem, pag. 117.
[19] L’insistenza sull’eguaglianza è forte anche in Rousseau e in Marx. Ma sulla questione Marx è molto meno ingenuo di quanto non lo sia certa vulgata marxistica che poi ha adottato anche le idee di don Milani. Nella Critica al programma di Gotha del 1875 Marx riassume il senso dell’immaginaria ultima fase della società comunista, allorquando la diversità di ciascuno troverà piena espressione, ricorrendo alla famosa esclamazione: «ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!».
[20] Ibidem, pag. 61.
[21] Ibidem, pag. 81.
[22] Anche questo pregiudizio risuona del pregiudizio di Rousseau.
[23] In realtà in un passo della Lettera (pag. 119) si sostiene anche l’esatto contrario, proprio laddove viene esplicitamente espresso un parere sulla pedagogia, che «così com’è io la leverei», dicono i ragazzi.
[24] Ibidem, pag. 62-63.
[25] Ibidem, pag. 53.
[26] Ibidem, pag. 55.
[27] Ibidem, pag. 78.
[28] Nella scuola superiore i ragazzi riconoscono il bisogno di una «selezione doverosa» ma senza rinunciare all’ottica complessiva, che resta ancorata ad una visione accusatoria rispetto al patrimonio culturale tradizionale: «Siete sicuri che per fare un buon maestro sia indispensabile il latino?», ibidem, pag. 111.
[29] Ibidem, pag. 21.
[30] Ibidem, p. 80.
[31] Ibidem, pag. 106.
[32] Ibidem, pagg. 79-80.
[33] La bocciatura, a ben vedere, non è che la richiesta di dedicare un altr’anno allo studio di cose non acquisite, e l’onta ad essa associata deriva soprattutto dal rimando sociale, che, a quei tempi come oggi, tende a confondere la dignità della persona con le sue prove scolastiche. Certo, c’è l’enorme problema dell’abbandono scolastico. Ma nella Lettera non si nasconde che esso non deriva tanto dall’impossibilità della famiglia a sostentare il figlio ripetente, ma dal desiderio di entrambi di girare pagina, magari sulla scorta di cattivi pareri degli stessi insegnanti.
[34] Ci sono passaggi della Lettera costruiti attorno ad una giusta indignazione, come quando si parla del problema delle lezioni private (oggi superato grazie ad un’offerta formativa più ampia di allora): «Ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze» (pagg. 63-64). Chiedo ancora dove stia il problema: nella mancanza di occasioni per colmare le differenze colmabili, oppure nel fatto che quelle differenze vengono rilevate?
[35] Nella Lettera si accenna con speranza ad una nuova norma che introdurrebbe un doposcuola di almeno 10 ore settimanali (pag. 31) ma il comprensibile pessimismo spinge in breve gli autori verso altre soluzioni, meno razionali. A pag. 84 è scritto pure «l’unica forma di anticlassismo serio è un doposcuola che caccia i ricchi», eppure ciò non impedisce di dar fiducia prioritaria a strumenti più diretti come la promozione automatica degli svantaggiati.
[36] Ibidem, pag. 17.
[37] Si ricordi anche l’idea di Marx ed Engels a proposito di scuola: perché potesse uscirne un uomo consapevole, essa doveva coniugarsi con il tempo-lavoro. Si veda almeno il provvedimento 10 del capitolo II del Manifesto del Partito Comunista, oltre alle osservazioni formulate in Il Capitale, libro I, sezione IV, cap. 13, § 9, dove è teorizzata: “l’educazione dell’avvenire, che collegherà, per tutti i bambini oltre una certa età, il lavoro produttivo con l’istruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico metodo per produrre uomini di pieno e armonico sviluppo“.
[38] Ibidem, pag. 25.
[39] Ibidem, pagg. 137-138.
[40] Ibidem, pag. 103. Questi passaggi sono quelli che più mi fanno pensare al giudizio espresso da P. P. Pasolini in La cultura contadina della scuola di Barbiana («Momento», IV, 1968). Nei limiti di un giudizio entusiastico che trovava spiegazione in un tale «punto di calore» ideale della Lettera da avere pochi eguali nella contemporaneità («dall’altra parte dell’orbe terraqueo» c’era la «rivoluzione culturale cinese») Pasolini riuscì a far trasparire il rischio di «riduttivismo» e di «qualunquismo piccolo borghese» (cioè le stesse colpe imputate alla professoressa) che correvano i giovani autori ed accusatori.
[41] Ibidem, pag. 78.
[42] Ibidem, pag. 71.
[43] Ibidem, pag. 64
[44] Ibidem, pag. 19.
[45] Ibidem, pag. 133.
[46] Ibidem, pag. 95.
[47] Ciò fa pensare anche alla pedagogia sovietica di tipo social-costruttivista promossa da Anton Semyonovich Makarenko (1888-1939).
[48] Ibidem, pag. 127.
[49] Ibidem, pag. 29.
[50] Su questa ed altre importanti considerazioni relative allo studio delle lingue antiche (le «lingue morte») e dell’italiano letterario fatto magari ricorrendo a riscritture facilitanti in italiano corrente, si veda l’ottimo Michele Loporcaro, «Tradurre i classici italiani? Ovvero Gramsci contro Rousseau» in Belfagor, Vol. 65, N°1 (31 gennaio 2010) pp. 3-32. L’autore non manca di cogliere l’assunto culturoclasta che, partendo da J. J. Rousseau giunge fino all’operato dei ministri Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro passando proprio per don Milani.
[51] Ibidem, pag. 139.
[52] Si legga, a titolo esemplificativo, l’articolo di Michele Brancale, «La fondazione Milani bacchetta le maestre di Pontremoli» (accusate, appunto di avere bocciato) pubblicato su Avvenire il 3 luglio 2012.
[53] Ibidem, pag. 78.
[54] Ibidem, pag. 48.
[55] L’odio di classe, la furia ideologica dei ragazzi di Barbiana sono aspetti su cui si concentrano alcuni dei pochi critici che don Milani ha trovato in Italia: Sebastiano Vassalli, «Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa» in Maestri e no, Interlinea, 2012; «Don Milani, che mascalzone», La Repubblica, martedì 30 giugno 1992, p. 36; «Ma allora i miti non muoiono mai», La Repubblica, sabato 4 luglio 1992, p. 34; e Marcello Veneziani, in «Quel santo parroco che sfasciò l’istruzione» pubblicato su Libero, il 25 settembre 2008.
[56] Notevole l’episodio del pane bianco, che colpì Lorenzo Milani nel profondo. Da giovane bohémien, quando ancora ambiva a diventar pittore, dipingeva all’aperto in un povero quartiere di Milano. Fu visto da una anziana signora consumare quel pane raffinato e ne raccolse il biasimo: per la sfrontatezza di mangiare una cosa da ricchi davanti agli occhi dei poveri.
[57] Da Tullio De Mauro, «La cultura», in AA. VV., Dal ’68 ad oggi. Come siamo e come eravamo, Laterza, Roma-Bari, 1980, pag. 192.
Caro Sagredo
Confesso di essere in difficoltà. Pur da agnostico impenitente la figura di Don Lorenzo è una di quelle che porto nel cuore, lessi la “Lettera…” nel 1970/71 a diciassette anni, curiosamente la associo a un altro libro, oggi totalmente dimenticato, “L’autobiografia di Malcolm X”, letto nello stesso periodo. Sono due testi che, come si suol dire, mi hanno segnato. Ho poi riletto il libretto di Don Milani circa venti anni, fa naturalmente non con l’ingenuo entusiasmo di quegli anni, e ne ho rilevato i grossi limiti, gli errori veri e propri, ma l’affetto, il ricordo resta.
Come anche tu dici, mi pare, credo che qualche attenuante la si possa concedere soprattutto in relazione a quella temperie storica. Molte delle magagne denunciate dal Priore di Barbiana esistevano senza dubbio, le soluzioni prospettate erano invece sbagliate, ma credo che i donmilanisti, almeno in alcune cose, siano andati molto oltre le sue intenzioni. Un esempio: è noto che Don Milani chiedeva moltissimo a sé stesso ma anche ai suoi ragazzi, non penso (è un esercizio temerario immaginare il pensiero di chi non c’è più, lo so) che approverebbe la scuola del “cazzeggio”.
Almeno in un primissimo tempo l’accorata denuncia di Don Milani ebbe qualche effetto positivo, e proprio come tu dici, nell’ aumentare l’attenzione verso le difficoltà nell’accesso all’istruzione delle classi svantaggiate, credo che ciò fu un bene.
Per tutto il resto trovo che le tue argomentazioni e i tuoi ragionamenti siano pertinenti, accurati, incontestabili. Anche se a malincuore mi trovo d’accordo, fatta salva l’ammirevole dedizione e buona fede di Don Lorenzo, tutte o quasi le tesi e le argomentazioni del suo libro sono andate a confluire in quel Maelstrom di permissivismo, puericentrismo, attivismo, etc., col quale abbiamo a che fare.
Osservo che per molto tempo, adesso non più, mi pare, sulla scia del donmilanismo è fiorito un numeroso gruppo di insegnanti di sinistra affetti da delirio di onnipotenza buonista. Il ragionamento era questo; la società è piena di ingiustizie a volte anche francamente terribili, (e constatiamo tutti che ciò è vero) io con un tratto di penna posso, almeno nella scuola, cancellare questa ingiustizia. Senza rendersi conto che il supposto rimedio è quasi sempre peggiore del male. Come già accennato le ragioni attuali del promozionismo a tutti costi mi pare siano differenti e anche più contorte, ma questo effetto, tra gli altri, c’è stato.
Per finire una considerazione puramente sentimentale, se il paradiso c’è, Don Lorenzo secondo me ci è andato, parafrasando qualcuno molto più importante di me: gli sono perdonati i suoi molti peccati, poiché molto ha amato.
Grazie davvero del commento,
anche io penso che, al di là di tutto, oggi don Milani biasimerebbe senza remore la scuola del “cazzeggio”.