Trento, Firenze, altrove: segnali di vita in una scuola morente
La cronaca ci racconta di una resistenza reale, anche se minoritaria, che si oppone alla distruzione della scuola, all’indebolimento culturale e morale delle giovani generazioni.

Tira una brutta aria, nelle scuole, per quelli che non si lasciano trasportare a peso morto dalla corrente che, dopo avere travolto il mobilio e le dotazioni, ne sta distruggendo i muri portanti. A restare ancora in piedi è qualche irriducibile visionario, che va abbattuto, sennò si rischia che altri capiscano che forse ha ragione lui e che, se il sistema d’istruzione è ridotto a un ammasso di macerie, è per via di quella corrente e della carenza di salmoni disposti a risalirla.
L’impressione insomma è che, dopo gli sforzi decennali impiegati per demolire la scuola italiana capovolgendone ab imis la logica e il senso, ora che il traguardo è vicino perché la devastazione è pressoché compiuta ed è sotto gli occhi di tutti, anche dei ciechi, ogni segno visibile di contraddizione vada spazzato via. Sia mai che sia preso ad esempio, mieta proseliti e finisca per compromettere un risultato ormai già considerato in tasca. Da cosa deriva questa impressione?
TRENTO, LICEO PRATI – L’ultimo significativo indizio è una polemica che ha investito uno storico liceo classico di Trento, il Prati, e che è stata data in pasto alle cronache affinché la collettività intenda: l’istituto è accusato di alimentare un opprimente clima di tensione capace di mettere a repentaglio il benessere degli studenti, sui quali i voti assegnati da professori insensibili e inumani peserebbero «come giudizi morali». Di qui un’ispezione ministeriale e il coinvolgimento addirittura del Consiglio provinciale con una interrogazione del partito Onda – gente che, siccome «coltiva la speranza di un mondo più vivibile e più giusto», non poteva certo tacere il sopruso perpetrato in aula ai danni di poveri ragazzoni indifesi. Chiamasi avvertimento.
La notizia mi ha colpita perché già mi aveva colpita l’intraprendenza anticonformista di quel liceo, e con ogni probabilità i motivi della mia attrazione coincidono con quelli che hanno provocato la pubblica censura. Risale a circa tre anni fa una tavola rotonda organizzata dal Prati nella quale, discutendosi in generale della attualità e del futuro del liceo classico, veniva presentata un’iniziativa messa in atto per valorizzarlo e per dimostrare le potenzialità che esso, a dispetto di una vulgata ostile e squalificante, tuttora può offrire a studenti desiderosi di affrontare il proprio percorso accademico – sia umanistico sia scientifico – armati di strumenti non convenzionali. Il Prati infatti, sotto la guida della sua preside Paola Baratter, ha predisposto una serie di indirizzi (quelli che vanno tanto di moda e che, per una qualche imperscrutabile ragione, nel gergo pedoburocratico vanno sotto il nome di “curvature”) dove, al fine di potenziare determinati ambiti disciplinari, anziché sacrificare ore delle materie caratterizzanti (greco e latino in particolare), le si aumenta: così, ad esempio, chi desideri aprirsi la strada a studi matematico-scientifici farà più ore di greco, per affrontare in lingua testi fondativi come i libri degli elementi di Euclide. Che è un modo intelligente di approfondire la matematica penetrando il suo ricco orizzonte storico e, insieme, di rafforzare la conoscenza della lingua greca e la pratica della traduzione dal greco, che rappresenta l’esclusiva del liceo classico e costituisce un esercizio mentale impareggiabile poiché implica l’uso simultaneo un ampio ventaglio di attitudini cognitive e intellettive superiori: logiche, grammaticali, linguistiche (tanto nella lingua antica come nella lingua materna), storiche, creative.
Memore di quell’evento, che aveva raccolto voci autorevoli e brillanti come quella del professor Lucio Russo – matematico e fisico, autore, tra i molti altri, del libro: Perché la cultura classica? La risposta di un non classicista –, dei professori Michele Napolitano, Adolfo Scotto Di Luzio, Ilaria Rizzini, Paola Mastrocola, Claudio Fontanari, sono andata di persona a un altro incontro pubblico tenuto a gennaio 2025, dove ho avuto modo non solo di assistere al dibattito seguìto alla tavola rotonda, ma anche di parlare proprio con alcuni docenti del Prati, sentendoli orgogliosi di prestare la propria professionalità in una scuola che, rara avis in terris, di questa professionalità riconosce ancora il valore.
Ma ciò che più deve interessare della vicenda, e che aiuta a leggerla sotto la luce corretta, emerge dalla lettera aperta che un gruppo di studenti appena diplomati si è sentito in dovere di scrivere per contrastare l’attacco mediatico al proprio liceo con la testimonianza diretta di una esperienza quinquennale vissuta lì dentro. «Sì la fatica, sì l’ansia e ogni altra emozione che può derivare da queste due, ma anche molto di più. In primis è assurdo descrivere i professori come è stato fatto: in questi cinque anni abbiamo conosciuto persone straordinarie, appassionate, desiderose di elargire un’educazione nel senso più completo». «La fatica fa parte del gioco, una fatica che vogliamo ribadire mai insostenibile, e che guardandoci indietro possiamo apprezzare per averci reso in grado di non scoppiare in lacrime al primo accenno di difficoltà». «Ma forse che noi abbiamo frequentato una scuola diversa da quella presentata sui giornali? O forse si è cercato, come sempre, di enfatizzare i toni, di raccogliere le voci polemiche per creare un più interessante spettacolo?». «E i giornali aumentano la pressione, l’immagine infernale della scuola, trasportando solo il lato negativo di essa invece di tutelare un’istituzione come il Prati, uno dei pochi licei classici ad avere retto sul panorama nazionale come numero di iscritti».
CACCIA AL SALMONE – E allora? Allora ecco profilarsi una spaccatura che, a chi frequenta e osserva il mondo della scuola, appare sempre più evidente. Da una parte il flusso autodistruttivo della retorica assistenzialista, dell’inclusività che “include” nel lassismo e nella inconsistenza, nel buonismo, nella superficialità e nell’approssimazione, e del bello dell’analfabetismo; dall’altra parte le esigenze non del tutto represse – nonostante il lavaggio cerebrale continuato a suon di mantra tanto demenziali quanto accattivanti – di una minoranza che alla scuola chiede ancora conoscenza e cultura, rigore e serietà.
La cronaca trentina non è dunque il frutto di una stravaganza locale. È la riproduzione ad extra e su scala appena un po’ più grande di un canovaccio che appartiene alle dinamiche interne di gran parte delle scuole italiane e segna la vita di insegnanti che nella loro testa e nel loro cuore non concepiscono l’acquiescenza al degrado, pur consapevoli che garantirebbe loro sempiterna tranquillità.
E se è pur vero che cresce la quota di genitori e di alunni disposta a tutto pur di procacciarsi una certificazione che, attraverso un piano didattico personalizzato, assicuri carezze, voti stellari e promozione in scioltezza, è altrettanto vero che molti altri cercano disperatamente una scuola che insegni davvero e sia in grado di elevare i propri figli sopra il brodo primordiale e omologante dell’ideologia corriva distillata in agende a scadenza.
FIRENZE, LICEO MICHELANGIOLO – Un’altra prova del serpeggiare sottotraccia di questa frattura silenziosa riguarda un professore di Firenze, divenuto bersaglio fisso di una gragnola di provvedimenti disciplinari a causa della sua scarsa propensione a interpretare la scuola come una struttura di accoglienza socio-assistenziale. In questo caso la risonanza mediatica della vicenda è servita a farla uscire dall’aria viziata delle segreterie e degli uffici didattici, dove capita che le cose umane restino intrappolate in spirali parapoliziesche di ipocrisie endoriferite e autoreplicanti. Anche in questo caso gli alunni e i loro genitori, disturbando il corso opaco delle procedure, sono insorti in difesa del loro professore con una lettera aperta al ministro Valditara.
«Il professor Rebuffat è uno dei pochi docenti rimasti fermi nel rappresentare una scuola seria e autentica nei contenuti disciplinari e nella didattica, volta alla piena formazione culturale degli studenti, evidentemente poco gradita laddove stanno sempre più prendendo piede atteggiamenti e pratiche più accomodanti se non proprio clientelari». Docenti di questa stoffa, «capaci di centrare il segno in ognuno degli studenti e di scuotere gli animi, risvegliando in loro un interesse che va oltre la singola materia e spazia nel fascino che sprigiona la cultura, l’amore per lo studio e la ricerca di un proprio pensiero critico, propositivo, attivo» «vengono emarginati e messi sul banco degli imputati invece che considerati la risorsa migliore dell’istituto». «È questo il motivo per il quale ci rivolgiamo direttamente a Lei, signor Ministro, perché agisca in difesa del docente, permettendogli di lavorare con serenità assieme agli studenti che hanno la fortuna di poterlo incontrare nel loro percorso scolastico». Di nuovo, l’elogio sacrosanto di un profilo fuori moda nel panorama desolante dell’istruzione pubblica (e privata).
Nella sventura di essere vittima di un accanimento tanto insistente da passare il segno, il professor Enrico Rebuffat ha avuto la fortuna di poter contare sull’appoggio unanime, energico e determinato dei suoi allievi e delle loro famiglie. Ma quante altre situazioni assimilabili alla sua restano soffocate nei meandri di una scuola diroccata e sofferente, che ormai si regge solo, a pezzi, sulle spalle di una esigua minoranza di insegnanti ostinati e generosi, renitenti alla leva della menzogna, disubbidienti alla consegna esplicita di abdicare al compito, incommensurabilmente prezioso, di trasmettere la conoscenza e di educare alla autonomia di pensiero, al sapere e alla virtù? Professionisti che per il loro senso di responsabilità vengono troppo spesso ripagati con la moneta dell’ostracismo, dell’isolamento, quando non della denigrazione e della vera e propria persecuzione? Chissà se il ministro lo sa. Speriamo gliene giunga voce.
MOLTIPLICARE I TIZZONI DI RESISTENZA – A proposito di quell’impressione di cui si diceva all’inizio. L’opera di smantellamento della scuola è stata condotta a regola d’arte, con metodo e furbizia, nascondendo il veleno dentro il fumo delle parole. Ora che la maggioranza, canticchiando i ritornelli dello spartito mandato a memoria collettiva, ha smarrito l’attitudine a comprendere i fenomeni da cui è travolta così come la forza di reagire, i miscredenti al culto globalizzato del benessere e del perdigiornismo costituiscono un disturbo intollerabile alla quiete pubblica.
Ecco perché bisogna unirsi a loro, e fare chiasso. E pretendere di essere ascoltati. Perché restituire alla scuola il suo statuto e il suo senso, e allo studio la sua dignità, è la via obbligata per regalare ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme alle dimensioni che servono a prenderne le misure (l’altezza, la profondità, la distanza), anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. Abituarli a un lavoro impegnativo e sensato è quanto l’istituzione, quella che più di ogni altra ci parla di futuro, può e deve fare per contribuire a crescere uomini e cittadini capaci di orientarsi nella complessità del reale, di coltivare il gusto per le cose belle, e di far fronte con coraggio alla vita.
[questo articolo di Elisabetta Frezza è stato pubblicato anche su Ricognizioni – oltre la linea in data 04 giugno 2025]