L’esasperazione del simbolico: sul trionfalismo all’esame di Stato
Anche quest’anno il superamento dell’esame di Stato (che però superano tutti) ha dato luogo al rituale dei Grandi Festeggiamenti, nell’entusiasmo di figli e e genitori.
Che cosa si nasconde dietro questi eccessi?

In questi ultimi anni si è fatta sempre più evidente una tendenza che, come insegnante e pedagogista, osservo con crescente perplessità: l’enfasi eccessiva con cui viene celebrato il conseguimento del diploma di maturità. Scene di ragazzi acclamati all’uscita dall’esame orale con corone d’alloro, spari di coriandoli, bouquet degni di una cerimonia nuziale; genitori in lacrime che descrivono sui social il percorso di studi dei figli come se si fosse trattato della scalata all’Everest. È questo, ormai, il nuovo rituale collettivo di passaggio all’età adulta? È davvero questo il significato che vogliamo attribuire a un traguardo scolastico che, per quanto impegnativo e degno di riconoscimento, dovrebbe comunque rientrare nell’ambito dell’ordinario dato che la stragrande maggioranza dei ragazzi italiani lo consegue?
Negli ultimi tempi, anche figure pubbliche di rilievo hanno contribuito a legittimare una narrazione eccessivamente celebrativa attorno al diploma dei figli. È emblematico, ad esempio, il caso recente dell’ex premier Matteo Renzi (leggi qui), che ha pubblicamente celebrato sui social l’esame della figlia con toni a dir poco enfatici (“stupiti e felici ti ammiriamo come scrive ancora Montale: «Ti guardiamo noi, della razza di chi rimane a terra»”), corredati da foto, ringraziamenti e dichiarazioni che hanno fatto rapidamente il giro del web. Si tratta di un gesto comprensibile sul piano affettivo, ma che assume un valore simbolico rilevante quando a compierlo sono persone con visibilità pubblica.
Difatti questa forma di trionfalismo scolastico dice molto non tanto sui ragazzi (che nella maggior parte dei casi si limitano ad assecondare un copione dettato dalla moda degli ultimi anni) quanto sugli adulti e in particolare sui genitori. Non è in discussione il festeggiare in sé, quanto il modo e l’intensità simbolica con cui si sceglie di festeggiare. Nella nostra società, sempre più orientata all’apparenza e all’istantaneità del consenso, si celebra tutto, sempre e allo stesso modo, e così facendo si annulla la differenza tra ciò che è veramente eccezionale e ciò che è semplicemente doveroso. La ritualità pubblica si gonfia di emozioni e segni spettacolari, ma perde profondità e discernimento.
Il diploma oggi sembra aver assunto una connotazione quasi epica, come se fosse l’unico traguardo sicuramente raggiungibile in una società in cui i ragazzi trovano serie difficoltà a costruire il loro futuro. Ma se si confonde il riconoscimento di un traguardo scolastico con la glorificazione di un’impresa, si sviluppa nei ragazzi un’idea distorta del merito e della fatica: e questo rischia di generare una predisposizione all’infelicità. Infatti ogni volta che una conquista ordinaria viene trattata come un’impresa titanica, si alza automaticamente l’asticella per le celebrazioni future e si erode il senso di ogni successiva conquista. È un processo di inflazione simbolica che, in questo caso, impoverisce il valore reale del percorso didattico ed educativo degli studenti.
Da un punto di vista più ampio, questa dinamica è perfettamente in linea con i meccanismi della cosiddetta società liquida, come descritta da Zygmunt Bauman. Una società in cui i legami si fanno evanescenti, in cui le istituzioni educative perdono autorità e in cui l’adulto non è più guida stabile ma compagno simmetricamente emotivo, tifoso più che educatore. Si è rotto, ci segnala il neuropsichiatra Narciso Mostarda, il patto educativo tra le generazioni, dal momento che il genitore divenuto “adolescente permanente” diviene parte del flusso indistinto di emozioni e consensi. In questo vuoto il trionfalismo diventa spesso una forma di compensazione: quando non si è più consapevoli del valore reale di un’esperienza, si amplifica il rituale che la celebra.
Non possiamo trascurare nemmeno il contesto istituzionale in cui questi eventi si verificano. La scuola è il luogo che, per definizione, dovrebbe conservare ancora una sua forma, un’etica della misura. Invece è sempre più spesso il palcoscenico di scene che poco hanno a che vedere con l’ambiente scolastico. E il pensiero va anche al personale che si ritrova a dover ripulire la scuola da coriandoli, festoni e spumante come se si fosse celebrato un matrimonio. Tutto questo non è solo poco decoroso, è altamente diseducativo.
In questo scenario, credo si debba avere il coraggio di dire che oggi la pedagogia serve per i genitori. Una pedagogia che aiuti gli adulti a ritrovare il senso del limite, il valore della misura e la capacità di dare il giusto peso a ciò che accade. Perché l’eccessiva protezione e l’eccessiva esaltazione sono, in fondo, due facce della stessa medaglia: entrambe esprimono una difficoltà nel sostenere con equilibrio il percorso dei figli, nel reggere il confronto con i loro insuccessi e nel saperli accompagnare senza invadere o spettacolarizzare. Ritenere il diploma un traguardo importante è fondamentale, certo, festeggiare è umano. Ma servono contegno e sobrietà. Soprattutto, è necessario che i ragazzi vengano educati a distinguere ciò che davvero merita di essere riconosciuto da ciò che, semplicemente, fa parte della loro crescita.
Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Roma, Laterza, 2011
Narciso Mostarda, La società adolescente. Padri e figli al tempo dell’identità smarrita, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2018
Analisi lucida e severa. Del resto da tempo assistiamo a matrimoni hollywoodiani che poi durano anche meno delle rate da pagare per la fastosa cerimonia. Già da tempo, in certe scuole, i ragazzi celebrano periodicamente costose feste in costume a tema (antichi romani, moschettieri, ecc.) che costringono i genitori meno abbienti a fare i salti mortali. Il fenomeno nasconde tutta l’angoscia della finzione, perché i ragazzi *sanno* di non avere, nella maggior parte dei casi, conseguito niente di sotanziale. Così come i loro genitori,che pretendono voti alti ma non il loro corrispettivo in preparazione e in moralità. Insomma siamo nel regno della finzione. E la Scuola, anziché fare, severa Maestra, da argine, finisce per costituirsi quale prima artefice di questa preoccupante alienazione. In che senso, alienazione? Nel porre le proprie aspettative idealizzate, il proprio sé sublimato, non come qualcosa da realizzare con fatica e impegno, ma come qualcosa di puramente immaginato e inventato, un’immagine virtuale di sé -che però sta *fuori* di sé.