Furedi: l’inclusione populista vs la cultura come valore

Il parere del noto sociologo britannico sull’uso distorsivo di termini quali inclusione ed accessibilità è illuminante.


L’intellettuale britannico Frank Furedi (1947) si è lungamente occupato di sociologia della conoscenza e dell’educazione. Nel brano che riporto di seguito, tratto dal saggio Che fine hanno fatto gli intellettuali. I filistei del XXI secolo, egli sottolinea con forza l’errore – definito “populista” – di molti paesi occidentali, a partire dalla Gran Bretagna, secondo il quale, nel momento in cui si propone un sistema di istruzione che arriva ad un grande numero di persone, diventa necessario rinunciare a qualsiasi standard predefinito in ordine alla qualità culturale proposta. Per Furedi l’inclusione, l’accessibilità e la partecipazione al mondo della scuola e della cultura sono dunque diventati ideali sconnessi dalle esigenze più autentiche della collettività, e godono di una paradossale priorità sull’istruzione perché ad essa non si attribuisce più alcun valore intrinseco, ma solo un valore di scambio nel rapporto tra il potere (della politica, degli amministratori, dei partiti, delle élite culturali) e le masse, con le quali bisogna entrare in contatto, costi quel che costi, alimentando un principio di soddisfazione effimera.

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“La subordinazione dell’atto democratico del voto all’obiettivo di rimanere in contatto con la gente trova dei paralleli in ogni ambito della vita culturale. Niente sembra avere un valore intrinseco. Il sapere, la conoscenza, l’istruzione superiore, l’arte e la cultura non sono promossi in nome di una qualche qualità intrinseca che si ritiene essi posseggano. Questo orientamento strumentale nei confronti della cultura non costituisce una novità: la commercializzazione della produzione culturale ha sempre stimolato un ethos strumentale nei confronti della vita intellettuale e artistica. Ciò che è cambiato è che la cultura non viene semplicemente pubblicizzata come una merce, ma propagandata con fervore come un modo di favorire il programma dell’inclusione sociale. Come nel caso del voto, la cultura è valorizzata nella misura in cui porta avanti l’agenda populista dell’inclusione, della partecipazione e dell’accesso. Ogni aspetto della cultura è sempre più valutato dal punto di vista di tale agenda. La questione non è se quella istituzione o questo artefatto culturale siano buoni o cattivi, belli o brutti, illuminanti o meno, ma se sono attuali, accessibili o inclusivi. Indipendentemente dal contenuto, ciò che promette di favorire il contatto con il pubblico può contare sull’appoggio e sul sostegno delle nostre élite culturali.

Se l’imperativo dell’ingegneria sociale è disposto a cambiare il significato del voto, allo stesso modo è pronto a ridefinire l’arte, la cultura, il sapere e l’università. L’imperativo dell'”entrare in contatto” implica che le istituzioni culturali e formative verranno giudicate meno sulla base di criteri a loro intrinseci che sulla loro rilevanza e accessibilità per un ampio pubblico. In passato, la cosiddetta Cultura Alta era spesso accusata di costituire il monopolio di una ristretta oligarchia, mentre alla gente comune era preclusa la possibilità di goderne. Oggi, la critica rivolta alla Cultura Alta si appunterà molto più facilmente sul suo essere di gran lunga troppo impegnativa per essere popolare, e di essere estranea e lontana dalla vita della gente.

La pertinenza è diventata un concetto chiave dell’ethos contemporaneo dell’ingegneria sociale. Nel corso della storia i grandi pensatori sono stati accusati dai demagoghi populisti antintellettuali di non essere in sintonia con i bisogni della gente. L’intellettuale e l’artista distaccato sono stati oggetto di derisione populista per tutti gli ultimi tre secoli. Oggi questa critica filistea si è estesa fino ad abbracciare ogni aspetto della vita culturale ritenuto non direttamente rilevante per la gente, il che, in pratica, significa non rilevante per la classe politica. Amministratori e politici fedeli all’imperativo dell’ingegneria sociale si prestano con estremo piacere a criticare i principali musei e università per il loro carattere stantio ed elitario. Matthew (ora Lord) Evans, nominato presidente di Resource, il corpo consultivo sui musei del governo inglese, ha affermato nel suo primo discorso ufficiale nel 2000 che i musei avrebbero dovuto dimostrare la loro “rilevanza per le comunità locali”, mandando le proprie opere all’esterno perché fossero esposte nei negozi e nei pub.’ In Inghilterra, i mormorii compiaciuti sul carattere elitario di Oxford e Cambridge sono diventati un ingrediente chiave della dieta quotidiana della politica populista. È come se un oggetto esibito in un pub diventasse oggetto di approvazione perché è in un pub e non nella National Gallery.

Una volta che valori come l’attualità e l’accessibilità hanno acquisito tale importanza, essi diventano gli arbitri della vita scolastica e culturale. Secondo questo metro di giudizio, il valore di un concetto sociologico, di un’opera o di un brano di Shakespeare è determinato dalla sua attualità e accessibilità. Se non riesce a essere attuale e accessibile, può subire un riadattamento populista che lo renda utile al progetto di ingegneria sociale. Nel settembre 2003 si venne a sapere che il Classical Theater Lab di Los Angeles aveva avviato una serie di produzioni shakespeariane accessibili al pubblico. La serie “Chi ha paura di William Shakespeare?” voleva realizzare messe in scena che non intimidissero il pubblico. Gli attori spiegavano la storia man mano che essa procedeva, parafrasavano gran parte del difficile linguaggio, e si interrompevano per rispondere alle domande del pubblico (Weeks, 2003).

La semplificazione di Shakespeare operata dal Classical Theater Lab non è motivata da un qualche intento artistico che richieda una significativa reinterpretazione delle opere del maestro. La reinterpretazione di un’opera teatrale sulla base di una modificata sensibilità estetica è parte integrante dell’evoluzione del teatro. Tuttavia, in questo caso la reinterpretazione non è la conseguenza di un giudizio estetico, bensì della preoccupazione di rendere l’opera pertinente per il pubblico. Come nel caso del voto elettronico, è il desiderio di entrare in relazione con il pubblico, piuttosto che la qualità di quella relazione, ad animare l’obiettivo di rendere Shakespeare più digeribile.

Alcune forme di pratica culturale non possono essere semplificate e rese attuali. È difficile, per esempio, trasformare una complessa sinfonia musicale in un intrattenimento per le famiglie; così, invece di subire una ristrutturazione populista, essa dovrà sparire o essere trattata con riprovazione. Un chiaro esempio in proposito è la critica attuale del tema scolastico. Secondo alcuni sostenitori del movimento per l’accesso, il tema scritto è così elitario che non si dovrebbe chiedere agli studenti universitari comuni di scriverne uno. Richard Winter, professore di Pedagogia presso il Politecnico di Anglia, sostiene che scrivere un tema è una cosa “difficile e non familiare, soprattutto per coloro che tornano all’istruzione formale dopo una lunga assenza o per le prime generazioni che accedono all’istruzione superiore”. Winter (2003) crede che il tema “privi della possibilità di esprimersi studenti che sarebbero assolutamente capaci di esporre la propria visione delle cose attraverso altri generi e stili”, e che in ogni caso il tema è sopravvalutato e ci sono metodi diversi, e migliori, di imparare. Winter preferisce quelli che chiama compiti “patchwork: brevi componimenti scritti pensati per far sentire gli studenti a proprio agio e sicuri di sé.

Il rifiuto del tema in favore del compito patchwork espresso da Winter riflette una più ampia tendenza a subordinare l’istruzione e la cultura alle esigenze dell’inclusione sociale. Come è facile intuire, non è l’impulso all’istruzione e allo sviluppo delle facoltà mentali a guidare questo approccio, bensì qualcosa di esterno a esso: la politica dell’inclusione. L’appello a sostituire il tema con il componimento patchwork è motivato dalla convinzione che niente di “poco familiare” debba frapporsi tra lo studente e l’istruzione universitaria. Questa dichiarazione ha poco a che vedere con la forma-tema in sé. Ma nel promuovere i componimenti patchwork, Winter non può fare a meno di denigrare il valore del tema. Questo esempio mostra che la banalizzazione non è un accidentale effetto secondario della campagna per estendere l’accesso all’istruzione superiore, bensì l’inevitabile conseguenza di una prospettiva che vede l’obiettivo dell’istruzione in qualcosa di esterno all’istruzione stessa. In questo caso, l’accesso e l’inclusione sono gli obiettivi, e l’istruzione il mezzo per raggiungerli.

Un ulteriore esempio di questa tendenza è l’attuale discussione sulle biblioteche pubbliche. Il Dipartimento per la cultura, i media e lo sport (DCMS) ritiene che le persone possano essere restie ad andare in biblioteca perché essa somiglia troppo… a una biblioteca. Un rapporto del DCMS sostiene che i bibliotecari potrebbero scoraggiare l’utenza da parte di certe persone o sezioni della comunità attraverso un “comportamento inappropriato”, “regole inadeguate”, o “politiche di acquisizione dei testi che non riflettono i bisogni della comunità”. Better Public Libraries, una relazione pubblicata dalla Commissione per l’architettura e l’edilizia nell’agosto 2003, attribuisce ai “criteri tradizionali seguiti dai centri di prestito dei libri” un calo del 17% nell’affluenza alle biblioteche. Esso chiede che le biblioteche diventino un “salotto della città”:

Le nuove biblioteche devono diventare sempre più un posto dove trascorrere il tempo per gli studenti, un porto sicuro per i bambini, persino una casa lontano da casa. Esse devono includere bar, sale d’attesa con i divani, e zone per il relax dove i giovani possano guardare MTV, leggere le riviste e ascoltare i CD presso apposite stazioni. (Citato in Wainwright, 2003)

In altre parole le biblioteche possono dedicarsi alla fornitura di praticamente qualsiasi servizio purché non si tratti della tediosa operazione di dare libri in prestito. Poiché far varcare la soglia della biblioteca al maggior numero di persone possibile è l’obiettivo primario, qualsiasi cosa intralci il progetto di attrarre utenti diventa un problema. I libri dalle biblioteche, come anche i temi dalle università, dovranno semplicemente sparire.

La premessa implicita in Better Public Libraries e nella politica dell’accesso è che qualunque ostacolo frapposto dalla vita culturale alla partecipazione della gente costituisca un problema da rimuovere. Più in generale, quasi ogni pratica culturale o formativa che il pubblico non abbracci spontaneamente può essere stigmatizzata come elitaria. Secondo questa prospettiva, la cultura opera al meglio quando può essere scodellata e consumata da chiunque in qualunque momento. Ma una disciplina universitaria, come una pratica culturale, ha una propria integrità. E poiché questo conferisce a un libro o a un quadro la sua specifica identità, necessariamente pone una barriera all’accesso spontaneo. Come scrive il critico culturale inglese Josie Appleton: “Qualunque cosa abbia una propria identità erige ‘barriere’ – il fatto che opponga resistenza ti rende consapevole che si tratta di un oggetto separato, e non di un tuo riflesso“. Appleton aggiunge che “un quadro resiste allo spettatore perché ha una propria logica”, e ammonisce “non puoi ‘afferrarlo’ immediatamente quando lo guardi, e buttarlo giù tutto d’un fiato”.?

L’argomentazione di Appleton si applica anche alle istituzioni: “Ogni istituzione dotata di una propria atmosfera, come una biblioteca o un museo, erigerà una sorta di ‘barriera’ e ti impedirà di sentirti come se fossi nel salotto di casa tua”, osserva l’autrice. Perché? Perché ogni istituzione culturale ha il proprio senso di sé, il proprio archivio, la propria storia e la propria integrità. Le barriere che esse rappresentano sono parte integrante della vita culturale, e di fatto è proprio questo che le rende interessanti. Istituzioni come l’università creano anch’esse barriere che devono essere superate da quanti si impegnano nel proprio sviluppo intellettuale. Ovviamente queste barriere possono essere rimosse, ma al costo di perdere l’integrità dell’istruzione superiore.

La partecipazione nel campo delle arti e dell’istruzione è apprezzata perché si ritiene che essa aiuti le persone a relazionarsi con le istituzioni della società. Nelle parole di un sostenitore dei programmi di inclusione sociale:

Nuova fiducia e nuove capacità; nuove amicizie e opportunità sociali; cooperazione in vista dei risultati; coinvolgimento nella consultazione e nella democrazia locale; affermazione e problematizzazione dell’identità; maggiore adesione al territorio; legami interculturali, gestione positiva del rischio – questi… sono fattori cruciali nella lotta all’esclusione. La partecipazione alle arti realizza questo in parte costruendo una competenza individuale e collettiva, ma soprattutto costruendo fiducia nella possibilità di un cambiamento sociale positivo. (Matarosso, 1997)

Sempre, nel corso della storia, i governi hanno cercato di usare le arti per promuovere fini politici. In passato, esse erano usate per celebrare la gloria nazionale; oggi sono impiegate per stabilire un punto di contatto con individui atomizzati e spesso marginalizzati, e questa strategia si dispiega in modo sistematico e altamente individualizzato.

È importante capire che l’imperativo populista dell’ingegneria sociale non costituisce una risposta democratica né egualitaria al problema della disuguaglianza sociale o della povertà. Come ho evidenziato nel capitolo precedente, si tratta di un progetto che mira a ricoinvolgere una società sempre più frammentata. L’inclusione sociale, l’accessibilità e la partecipazione fanno parte di un’agenda che mira a stabilire punti di contatto tra un’élite culturale e un pubblico altrimenti estraniato. Poiché stabilire un contatto costituisce l’obiettivo principale, la questione relativa a in cosa esattamente gli esclusi siano inclusi viene raramente approfondita. È più facile estendere la partecipazione che assicurare che ciò cui le persone prendono parte sia meritevole del loro coinvolgimento.

Paradossalmente, le politiche di ingegneria sociale sono di solito presentate come parte di un programma di riforma radicale. Questo è certamente il modo in cui viene promossa l’estensione della partecipazione all’istruzione superiore. Tuttavia l’idea che l’università stia conoscendo un programma di riforma suona davvero strana. Le riforme nelle altre sfere della vita non partono dal presupposto che l’istituzione che esse intendono creare debba essere inferiore a quella che esisteva in precedenza. Nel periodo postbellico l’universalizzazione dell’accesso alle cure mediche attraverso l’istituzione del Servizio sanitario nazionale non ha significato trasformare l’ospedale in un centro di primo soccorso, a differenza dell’università che è stata reinventata come un college per l’istruzione avanzata.

Non c’è niente di nuovo nel tentativo di assoggettare la cultura e l’istruzione all’agenda dell’ingegneria sociale. In passato i critici se la prendevano con la celebrazione dell’arte come fine in sé, e denigravano l’idea di una ricerca disinteressata della verità. La differenza oggi sta nel modo in cui questi atteggiamenti sono sistematicamente riferiti e applicati a tutti gli ambiti della vita sociale, e nella riluttanza a riconoscere qualunque tipo di standard o di valore istituzionale. Di conseguenza oggi i valori istituzionali e gli standard rappresentano per la loro stessa natura un ostacolo all’estensione dell’accesso, e un insulto elitario all’autostima degli esclusi.

In linea di principio, creare un’eguaglianza di opportunità per tutti costituisce un nobile proposito. Estendere la partecipazione pubblica alla vita intellettuale e culturale è un obiettivo che chiunque abbia inclinazioni democratiche non può che condividere. Ma non è detto che, come i critici culturali conservatori hanno spesso sostenuto, la partecipazione popolare debba necessariamente andare a discapito degli standard. La convinzione che “di più significa peggio” costituiva, per esempio, il fondamento dell’obiezione che Kingsley Amis muoveva all’incremento del numero degli studenti universitari negli anni Sessanta (citato in Shils, 1972). Piuttosto, l’estensione dell’istruzione superiore può portare a un declino degli standard solo se essa è guidata da intenzioni che hanno poco a che fare con la promozione degli ideali dell’istituzione universitaria. E quando l’istruzione e la cultura sono dominate da preoccupazioni esterne alla loro agenda che “di più significa in realtà “di meno”.

A dispetto della sua retorica populista, la prospettiva dell’inclusione sociale è apertamente ostile all’autentica cultura popolare. L’autentica cultura popolare è prodotta autonomamente, e non costituisce il risultato di politiche volte a coinvolgere il pubblico. Le politiche dell’inclusione sociale, al contrario, mirano a plasmare il gusto popolare, a standardizzarlo e in ultima analisi a controllarlo“.

[testo tratto da Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, pp. 119-128]

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