La trascendenza di D’Avenia

Molti guru della nuova scuola propongono soluzioni la cui ambizione va al di là della banale didattica, e si configurano invece come superamento stesso della contingenza routinaria. Ma che cosa significa? Domandatelo a loro.


Questo non è un articolo del tutto razionale (e in quanto tale mi costerà meno fatica del solito). Ha il tono della mormorazione rancorosa, e dunque va letto aprendo le cateratte dell’emozionalità, come oggi è in voga.

Sono così stanco di ascoltare ovunque guru che parlano a sproposito di scuola sulle ali del sentimentalismo più emolliente, zuccheroso, anziché con argomentazioni logiche e stringenti, che voglio levarmi la soddisfazione di fare altrettanto, a mio piacimento, per una volta. Dunque scriverò con la pancia, ma non per esercitare l’ombelico, o per appiccicare ulteriormente la retorica già più che melliflua in tema di relazioni educative, di empatia o di affettività; NO. Voglio solo togliermi la soddisfazione di strapazzare una delle migliaia di esternazioni mammesche, coccolose e melense dei grandi diabetologi della scuola italiana. Ho scelto di accanirmi su un’uscita del prof. Alessandro D’Avenia, riportata su Altuofianco a seguito di una sua comparsata televisiva.

La grande sparata buonesca, protettiva, con tanto di picco glicemico, non arriva subito, deve prima essere preparata con apposita lubrificazione di tutti gli ugelli emotivi, i quali però cantino le lodi del fanciullo in nome della grande scienza. Leggiamo:

D’Avenia ha sottolineato come la neuroscienza abbia ormai ampiamente dimostrato che il cervello è connesso al corpo e che la tradizionale disposizione dei banchi in classe dovrebbe essere rivista. Anzi, dovrebbe essere rivisto proprio il concetto dei banchi, perché un bambino (o un adolescente) non può passare 5 ore costretto là dentro come nell’Ottocento […]

Ora, spero non ci sia bisogno di insistere sul fatto che D’Avenia va sul sicuro affermando che “il cervello è connesso al corpo”: se così non fosse staremmo tutti fermi al palo, seppure pensierosi. Tuttavia il nostro campione caramellato delibera d’appoggiarsi all’autorità suprema, e dunque chiama in causa le tonitruanti neuroscienze, forse nella speranza di convincere anche gli zombie ormai acefali e i poveri pazienti lobotomizzati; posta la premessa, D’Avenia introduce il non meglio precisato “concetto dei banchi” (che sembrerebbe il parto metafisico del famoso “concetto di tavolo” tanto caro agli studenti liceali che abbiano qualche memoria di Platone, visto che a studiare Husserl non s’arriva mai). Facciamola breve. Dal “concetto dei banchi” deriverebbe l’impossibilità dei bambini a trascorrere cinque ore in classe. Orbene, la puntiforme miseria del ragionamento sta tutta lì, nuda e cruda: siccome il cervello è connesso al corpo, bisogna che ai bambini proprietari del proprio cervello sia concesso di girare, saltare e correre, in onore all’arte circense.

Immanuel Kant, che stupidamente riteneva che la prima cosa da fare con i bambini fosse il dare loro una disciplina che mettesse a freno la loro animalità in vista dell’acquisizione della libertà di autodeterminazione, forse non seguirebbe D’Avenia su questo terreno: ma lo seguirò io, poiché sono coraggioso. Così, siccome il cervello è connesso al corpo e il corpo non può essere relegato tra i banchi, aggiungo per sovrabbondanza:

1) che i reni sono connessi alla vescica, e dunque la vescica non può essere imprigionata, disciplinata perché resti là dov’è, ma deve poter vagare – ureteri permettendo – tra gonadi, intestino e sfinteri, senza sciocche costrizioni militari;

2) che la quasi totalità delle risposte è connessa alle domande, e dunque le risposte non possono essere irrigidite, cristallizzate e fossilizzate come se sapessimo di cosa stiamo parlando, ma – come lice ai guru – devono vagare proteiformi nella noosfera senza porsi limiti di significato; devono andare e venire dagli orifizi boccali senza timor di Dio e di verità. Insomma le risposte alle domande devon poter esprimere quel cazzo che vogliono, secondo quanto comunemente dimostrato dai guru stessi.

Al procedere del discorso le suggestioni di D’Avenia si fanno più evanescenti, trascendentali, acquistano una venatura mistica, si protendono verso l’orientalismo di Schopenhauer. E infatti fanno il botto. Leggiamo:

Quando sento dire ‘dobbiamo fare l’educazione ai social’ ma che devi fare tu adulto, metterti a dire come si usa un social?! Piuttosto tu adulto fagli fare un quarto d’ora di meditazione in silenzio, lo rendi di nuovo protagonista di sé stesso libero, che quando usa uno strumento sente dolore perché gli viene tolta quella libertà e quella creatività.

È tutto giusto, diamine. Dobbiamo levare il telefono agli adolescenti, e fare in modo che tornino a sapere chi sono davvero, che si riapproprino tacendo della propria creatività intrinseca, del proprio dolore: proprio come l’artista che si esprima al meglio dipingendo una tela di bianco. Non serve che i giovani studino, che imparino la matematica, le lettere, la musica o la storia: devono meditare, devono restare in silenzio per un quarto d’ora, lontani dal clangore digitale. Sentire il flusso del presente. Zitti. Avvertire l’ora, l’hic et nunc. Che bella roba la mindfulness a scuola!

Peccato che la proposta sembri in palese ritardo, visto che il gioco del silenzio – almeno fino a qualche decennio fa – era il gioco dei bambini più piccini, incitati pure coi gesti a trattenersi, a prendere il controllo sulle proprie esternazioni fisiche, sulle proprie pulsioni, estrusioni, emissioni. Era un gioco di forza morale primitiva, di tenuta e di sfida. Non era il ciuccio degli studenti adolescenti che ora ridono sotto i baffi al pensiero che un insegnante-guru butti nel cesso un quarto o più dell’ora di lezione per una corbelleria ispirata al buon Buddha.

Nessuno trent’anni fa avrebbe mai pensato che nella quiete obbligata dei bambini della scuola elementare si adunasse l’universo di significati roteanti che oggi D’Avenia ed altri (ne abbiamo anche tra i nostri colleghi, eh) vorrebbero spararci dentro a forza, col cannone metafisico. Nessuno allora associava a quel gioco di strenua resistenza i sovrumani silenzi leopardiani, il sublime cosmico, i viaggi interstellari, la bilocazione spazio-temporale, i quanti, il senso della vita, l’entanglement, la pienezza del vuoto, il vuoto nel pieno, l’ineluttabilità del tutto, la precessione degli equinozi e la ricetta per il ragù di coniglio…

Una volta col gioco del silenzio s’esercitava l’autodisciplina. S’imparava a star composti. Tacevamo pure premendo le mani sulle labbra; trattenevamo il riso, lo sberleffo, lo sbuffo, lo scazzo. Arrossivamo come stufe, strabuzzavamo gli occhi, intuivamo, rimandavamo l’alterco. I migliori di noi trattenevano anche i peti.

Si stava zitti così, in attesa di poter parlare, al più sceverando le cose da dire non appena il maestro avesse dato il via, dopo aver spiato nelle nostre teste con quell’occhio penetrante che hanno solo i maestri. La nostra era una sfida proiettata al dopo: altro che qui ed ora … E quando il via arrivava, ci si guardava stupiti in faccia, si sghignazzava un istante, come aprendo una valvola rimasta chiusa, e si tornava di malavoglia alla noia ed al lavoro di quella scuola vecchia, tutta da scardinare: non sapevamo mica di tornare alla libertà ed alla creatività. Avevamo gli esercizi, i compiti da fare, le matite da temperare, il panino per la ricreazione.

Oggi invece a scuola siamo avanti: meditiamo. Certo, i ragazzi più grandi stentano proprio a tacere, a star fermi nel banco (si ricordi il “concetto di banco”), faticano a guardarsi negli occhi: ma quando la meditazione finisce essi tornano alla vera creatività, alla luminosa libertà promossa dai guru, che non sento mai parlare di vili conoscenze: la libertà coltivata nel vuoto, fiorita dal nulla, ridòttasi al niente.


2 Commenti

  1. Posso proporre un encomio, per l’autore di questo delizioso e tragicamente autentico intervento?

  2. La questione di una disposizione alternativa dei banchi può essere cavalcata soltanto da chi può permettersi di fare lezione senza scrivere sulla lavagna. Ergo, senza che i suoi studenti debbano, tutti, leggere la lavagna.

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