L’aggressività e il problema educativo

A partire da Rousseau la pedagogia attiva immagina nel bambino una istintività buona e capace di portarlo alla perfezione umana attraverso un’evoluzione autonoma. L’etologia ha invece dimostrato la limitatezza vitale degli istinti e la forza spontanea dell’aggressività intraspecifica negli animali e nell’uomo. Ne segue la necessità di una scuola che non si limiti ad assecondare gli interessi e i comportamenti istintivi degli alunni, ma li guidi alla conoscenza teorica e al rispetto dei valori spirituali.

La pedagogia dominante nelle scuole e nelle famiglie è sviata da un rovesciamento di prospettiva che ha il suo documento più esplicito nelle opere di Rousseau. Secondo le concezioni esposte nel suo «Discorso sulla disuguaglianza», nello stato di natura gli uomini vagavano solitari nelle foreste, per un verso interessati al proprio benessere e alla propria conservazione, per altro verso animati dalla commisération, cioè dalla ripugnanza naturale alla visione della morte e della sofferenza dei viventi e dei propri simili. Non solo, sembra dire Rousseau, gli uomini di natura avevano scarsi contatti; il loro animo pietoso impediva che gli scarsi contatti degenerassero in occasioni di conflitto. Lo stato di natura era dunque pacifico e non può spiegare la violenza che contrassegna l’esistenza dell’uomo storico. La violenza storica non nasce dalla natura dell’uomo, ma dalla civiltà: è stata questa a rendere gli uomini reciprocamente ostili.

È subito evidente perché questa concezione non sia convincente: essa ritrae gli uomini come individui solitari che interpongono il vuoto tra di loro per conservarsi indipendenti; l’interporre il vuoto non è però una semplice assenza di relazione, ma è un averla e un annullarla, un escludere – appunto la relazione negativa che è l’ostilità. Hegel chiama «repulsione» l’escludersi reciproco per cui i molti si conservano indipendenti. Sulla stessa linea ideale di pensiero, Konrad Lorenz ha stabilito che la diffusione territoriale dei membri della stessa specie non è un accidente, ma è uno degli effetti evolutivamente vantaggiosi dell’aggressività. Rousseau non doveva dunque affatto attendere la civilizzazione perché iniziasse l’ostilità tra gli uomini: egli, che ha fantasticato un idillio al solo scopo di tenerne lontana l’ostilità, non ha compreso che proprio il suo idillio di primitivi dispersi nelle foreste è già l’ostilità, perché gli individui si disperdono solo in quanto sono determinati dalla volontà di esclusione. Che l’ostilità sia il principio prevalente già nello stato di natura, emerge infine nello stesso Rousseau quando, nelle righe seguenti del discorso, egli consente che la commisération tra i viventi abbandoni ingloriosamente il campo non appena entri in contrasto con il principio di conservazione e benessere. La bontà dell’uomo naturale rousseauiano è un sottile velo sentimentale che tradisce un’insanabile misantropia.

Nonostante la sua evidente contraddizione, questa fantasia ha avuto straordinario successo nel Nuovo Mondo. È facile capire perché. La nazione americana si sentiva così nuova e immacolata da attribuirsi il compito di rinnovamento messianico dell’umanità; tuttavia, mentre mirava a un obiettivo tanto sublime, essa non si faceva scrupolo di sterminare la popolazione nativa mentre ne occupava i territori, e di tollerare l’inferno dello schiavismo, che nell’Europa, pur vecchia e corrotta, era scomparso da un millennio. Per la profonda contraddizione di affermare e negare la libertà e l’uguaglianza degli uomini, gli Stati Uniti erano condannati alla cattiva coscienza e la sostituzione della fantasia della vita naturale armoniosa all’amara conoscenza storica era l’unico modo per continuare a credere in sé stessi. Per questo la concezione di Rousseau, che qui nel Vecchio Mondo era stata sentita come un parossismo della sua mente poco equilibrata, è diventata paradossalmente buon senso comune là nel Nuovo Mondo. Ma il paradosso più stupefacente è che la concezione di Rousseau, contagiata dagli Stati Uniti a un’Europa spiritualmente disfatta dalle guerre mondiali, non ci è più apparsa delirante come quando fu proposta a metà Settecento: l’avere importato ciò che avevamo esportato non sapendo che farcene ce lo ha reso accettabile.

Poiché non basta la contraddittorietà a dissolvere le fantasie di Rousseau (la contraddizione, infatti, può essere vera), ma occorre anche la confutazione fattuale, vogliamo proporre la lettura di qualche pagina dal quarto capitolo del libro di Konrad Lorenz, «Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression», mal tradotto in italiano con il titolo «L’aggressività. Il cosiddetto male»[1]. Dopo aver ricordato che l’aggressività intraspecifica è un istinto indispensabile alla conservazione della specie, che deve dunque essere inibito perché la specie non si distrugga da sola, ma non può essere soppresso, Lorenz osserva che l’uomo è in una situazione particolare: per un verso, come tutti gli onnivori con deboli mezzi offensivi, dispone di scarse inibizioni naturali contro la propria aggressività, per altro verso la sua ragione sembra molto più efficace nell’intensificazione tecnica della distruttività che nel suo controllo. Di qui il pericolo che l’uomo costituisce per sé stesso. Il bisogno di protezione suscitato dall’angoscia per la pericolosità della condizione umana trova soddisfazione nel delirio che l’aggressività sia soltanto una reazione ai limiti imposti dalla civiltà, che dunque la si possa cancellare cancellando i limiti e affidandosi alla natura. Scrive Lorenz:

Proprio l’intuizione che la spinta aggressiva è un istinto autentico, di primaria importanza per la conservazione della specie, ce ne fa riconoscere tutta la pericolosità: è la spontaneità dell’istinto a renderlo così pericoloso. Se esso fosse soltanto una reazione a condizioni esterne particolari, come hanno supposto molti sociologi e psicologi, allora la situazione dell’umanità non sarebbe così pericolosa com’è di fatto. Allora sarebbe valido il principio che sia possibile individuare ed eliminare i fattori che scatenano la reazione. Freud può rivendicare la gloria di aver riconosciuto per la prima volta l’indipendenza dell’aggressività; egli ha anche mostrato che l’assenza e soprattutto la perdita del contatto sociale (perdita d’amore) appartengono ai fattori che la esasperano. La conseguenza falsa, che molti educatori americani hanno tratto da questa rappresentazione in sé giusta, è nella supposizione che i bambini diventerebbero uomini meno nevrotici, più adattati all’ambiente e soprattutto meno aggressivi, se sin da piccoli si risparmiasse loro ogni delusione (frustration) e si cedesse su tutto. Il metodo educativo americano corrispondente a queste supposizioni ha mostrato soltanto che la spinta aggressiva, come tanti altri istinti, sgorga «spontanea» dall’interiorità dell’uomo. Sono infatti venuti fuori innumerevoli bambini di insopportabile insolenza e tutt’altro che non aggressivi. L’aspetto tragico della questione tragicomica si è mostrato quando questi bambini sono diventati troppo grandi per la famiglia e ora, all’improvviso, si sono trovati davanti, non i loro genitori sottomessi, ma l’opinione pubblica impietosa, per esempio entrando in un college. Sotto la pressione di un inserimento sociale acquisito ora con molta durezza, moltissimi giovani educati in questo modo, come mi assicurano molti psicoanalisti americani, sono diventati gravemente nevrotici. La pedagogia di cui parliamo non sembra ancora estinta, perché l’anno scorso un eminente collega americano, che lavorava come ospite nel nostro istituto, mi pregò di poter restare ancora tre settimane, e come ragione indicò non progetti scientifici ulteriori, ma il fatto schietto e senza commenti che sua moglie avrebbe ospitato sua sorella e i tre ragazzi di costei erano «non-frustration children».

L’opinione teorica che il comportamento animale e umano sia in prevalenza reattivo e che nel caso in cui contenga elementi innati possa comunque essere completamente trasformato dall’apprendimento, è del tutto erronea, ma ha radici profonde, quasi inestirpabili, in un fraintendimento di principi democratici in sé giusti. A questi principi fa in qualche modo resistenza la constatazione che gli uomini non sono così uguali dalla nascita e che non tutti hanno, in maniera «giusta», uguali prospettive di diventare cittadini ideali.

Il fraintendimento a cui Lorenz si riferisce è ben esemplificato da Rousseau. Costui scrive nella prefazione al suo «Discorso sulla disuguaglianza»: «Gli uomini, come tutti riconoscono, sono per natura uguali fra loro quanto lo erano gli animali di ciascuna specie prima che cause fisiche diverse avessero introdotto in alcuni le varietà che vi riscontriamo». Ma è evidente che in natura non c’è mai stato un paradiso di uguaglianza precedente la differenza, che gli animali di ogni specie non sono mai stati uguali tra loro e che gli uomini nella loro naturalità lo sono ancor meno. L’uguaglianza tra gli uomini, che in ogni caso coesiste con le loro differenze, non si fonda sulla loro natura corporea ed emotiva, che è diversa in qualità e quantità per ognuno, ma sul dominio che ogni uomo esercita sulla sua natura corporea ed emotiva, al punto da poter preferire la morte alla vita. Questo dominio si esprime nell’idea religiosa di un’anima separabile dal corpo e immortale in ogni uomo. Dalla rappresentazione religiosa dell’anima è sgorgata la nozione giuridica di persona – una ristretta sfera di diritti che è riconosciuta a tutti gli uomini (qualunque sia la loro condizione effettiva) solo dalla civiltà occidentale sulla base del cristianesimo. Viceversa, il fraintendimento che gli individui siano uguali nella loro immediatezza naturale porta all’ulteriore fraintendimento che le loro differenze siano frutto di un torto, che la differenza sia il male: se la natura ci facesse tutti uguali, sarebbe o avrebbe meno solo chi fosse diminuito o spossessato da altri. Una concezione non solo infondata, ma al servizio del peccato dell’invidia. Continua Lorenz:

A ciò si aggiunge che per molti decenni soltanto la reazione, il «riflesso», ha rappresentato l’elemento del comportamento a cui gli psicologi da prendere sul serio dedicavano la loro attenzione, mentre ogni «spontaneità» del comportamento animale era dominio di naturalisti orientati al vitalismo, vale a dire sempre un po’ mistici.

Nell’etologia in senso stretto fu Wallace Craig che, prima degli altri, fece oggetto di indagine scientifica il fenomeno della spontaneità. Prima di lui, in contrasto con il motto cartesiano «Animal non agit, agitur», scritto sulla sua insegna dalla scuola psicologica americana del cosiddetto behaviorismo, già William McDougall aveva lanciato il suo grido di battaglia molto più esatto: «The healthy animal is up and doing» – un animale sano è attivo e fa qualcosa. Lui stesso considerava però questa spontaneità come una conseguenza della mistica forza vitale di cui nessuno sa che cosa propriamente significhi. Così non giunse al pensiero di osservare esattamente il ripetersi ritmico dei comportamenti spontanei e di misurare sistematicamente il valore limite degli stimoli scatenanti, come ha fatto in seguito Craig, suo allievo.

Craig sottrasse le femmine a maschi di tortore dal collare e, quasi a voler dimostrare la testarda spontaneità dell’istinto sessuale, essi, invece di acquietarsi nell’ascetismo per assenza di stimoli, corteggiarono dapprima le femmine di piccione selvatico fino a quel momento ignorate, poi delle colombe impagliate, poi degli stracci appallottolati e infine, dopo settimane di solitudine, l’angolo vuoto della gabbia.

Tradotto nel linguaggio della fisiologia, queste osservazioni rivelano che con il prolungarsi della sospensione di un comportamento istintivo, nel caso menzionato quello del corteggiamento, diminuisce il valore-soglia degli stimoli necessari a scatenarlo. Questo accade in modo così generalmente diffuso e regolare che la saggezza popolare se ne è accorta da molto tempo e lo ha espresso nel proverbio: «Il diavolo affamato divora i moscerini». Goethe esprime analoghe regolarità nella battuta di Mefisto: «Con questa bevanda in corpo vedrai Elena in ogni femmina» – anzi, se sei una tortora dal collare, la vedrai perfino in un vecchio straccio o nell’angolo vuoto della tua gabbia.

In casi particolari l’abbassamento di soglia degli stimoli scatenanti può raggiungere il valore limite di zero, come lo storno, abituato a essere nutrito da Lorenz, che beccava e deglutiva insetti inesistenti sul soffitto della sua casa.
L’«ingorgo» di un movimento istintivo, che interviene dopo una più lunga sottrazione degli stimoli scatenanti, non provoca soltanto l’aumento della prontezza alla reazione, ma causa processi molto più profondi, che compromettono l’intero organismo. Ogni movimento istintivo a cui sia sottratta la possibilità di sfogarsi ha la proprietà di rendere inquieto l’intero animale e di spingerlo a ricercare gli stimoli che lo scatenano. Wallace ha chiamato questa ricerca comportamento appetitivo.
Abbassamento della soglia e comportamento appetitivo sono particolarmente intensi nell’istinto di aggressione intraspecifica. Alcune specie di pesce sfogano su pesci di altre specie o sulle femmine l’aggressività che non possono sfogare con i pesci vicini. Anche l’aggressività umana emerge nei contatti ravvicinati e deve sfogarsi.

Ho potuto – o meglio dovuto – osservare proprio gli stessi processi in uomini seri e capaci di ogni pensabile padronanza di sé, e ovviamente in me stesso, precisamente durante la prigionia. La cosiddetta «malattia polare», chiamata anche «collera da spedizione», colpisce di preferenza piccoli gruppi di uomini, quando sono totalmente dipendenti l’uno dall’altro, quindi è loro impossibile affrontare persone estranee, non appartenenti alla cerchia di amici. Da quanto detto sarà già evidente che l’ingorgo dell’aggressione diventa tanto più pericoloso quanto meglio i membri del gruppo si conoscono, si capiscono e si amano. In situazioni simili, come posso assicurare per mia esperienza, i valori di soglia di tutti gli stimoli che scatenano aggressione e ostilità intraspecifica subiscono un abbassamento estremo. Soggettivamente, questo si esprime nel rispondere ai piccoli moti espressivi dei propri migliori amici, al modo in cui uno si schiarisce la voce o si soffia il naso, con reazioni che sarebbero adeguate se si fosse colpiti da un tanghero ubriaco. La consapevolezza della necessità fisiologica di questo fenomeno estremamente penoso impedisce certo l’uccisione dell’amico, ma non aiuta affatto a lenire la pena. La via d’uscita che il consapevole infine trova consiste nello scivolare in silenzio fuori dalla baracca (tenda della spedizione, igloo) e nel distruggere un oggetto che si vada in pezzi con un schianto quanto più possibile sonoro. Questo giova un poco e nel linguaggio dell’etologia si chiama un movimento riorientato – redirected activity secondo Tinbergen. Udremo ancora che questa via d’uscita è molto percorsa in natura per impedire gli effetti dannosi dell’aggressività. Invece l’inconsapevole uccide l’amico – questo è successo spesso!

Le argomentazioni di Lorenz vanno contro l’illusione che l’anima dei viventi sia, secondo l’espressione di Locke, una tabula rasa, in grado soltanto di riflettere l’esperienza; essa è invece affollata da istinti innati, che non sono effetti determinati da una causalità dell’ambiente, ma, al contrario, vi cercano attivamente gli stimoli adatti al loro scatenamento. Questo attivismo degli istinti ridimensiona il potere dell’ambiente immediato sul comportamento degli individui e sulla loro formazione. I viventi, meno che mai l’uomo, non sono plasmabili a volontà; l’educazione non è dunque onnipotente come vuole il behaviorismo, né i condizionamenti ambientali possono fare degli individui ciò che gli individui non vogliono essere. Inoltre, poiché l’istinto è diretto a fini soltanto vitali, un’educazione che contasse sul suo autonomo elevarsi alla spiritualità sarebbe condannata al fallimento; in particolare, una scuola in cui gli insegnanti rinunciassero ai metodi diretti e abbandonassero gli alunni ai loro interessi percepiti, li lascerebbe inetti e ignoranti. C’è un terzo punto. Tra gli istinti che affollano l’anima dei viventi, l’aggressività è uno dei più importanti e può scatenarsi tanto più incontrollata quanto più intima è la relazione di chi aggredisce con l’aggredito. Quanto più la pedagogia raccomanda di evitare ogni frustrazione degli educati nell’assurda certezza romantica che la loro natura sia armonica e contenga la mappa infallibile per giungere alla maturità, tanto più le scuole diventano ambienti segnati dal degrado culturale, dalla mancanza di rispetto e dalla violenza. Di qui l’importanza che gli insegnanti non si affidino alla spontaneità del bambino, che non rinuncino all’autorevolezza e sappiano limitare con prudente saggezza l’istintività di chi è affidato loro.


[1] La versione italiana di Elisabetta Bolla è stata pubblicata per la prima volta nel 1969 e riedita nel 2015. È così piena di errori e di goffaggini che sembra tradurre un testo diverso da quello di Lorenz. La traduzione delle parti citate in questo articolo è mia. Mi sono servito dell’edizione pubblicata a Monaco nel 1983 da dtv.

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