Superare l’incapacità: un costo e un metodo

Un tot di disciplina e di severità serve prima di tutto ai ragazzi, altrimenti in balia delle proprie pulsioni.


Sulla valutazione infuria una polemica interessante. Si distingue la valutazione formativa da quella sommativa e si vuole che la prima sia un aiuto del docente che consenta al discente di migliorare il suo apprendimento senza ingenerargli ansia. Sullo sfondo di questa concezione si scorge la polemica contro il fantasma dell’insegnante gentiliano, che usa la valutazione come strumento per esercitare potere sugli alunni e per escluderne una parte dal percorso educativo. Per quanto si debba essere d’accordo sulla necessità che la valutazione abbia un carattere anzitutto formativo, sia cioè soprattutto uno strumento con cui l’insegnante favorisce l’apprendimento degli alunni, è opportuno ricordare che

a) il titolo di studio rilasciato dalle scuole ha valore legale, ossia conferisce dei diritti esclusivi a chi lo consegue; dunque le valutazioni con cui la scuola giunge a rilasciarlo devono essere per quanto possibile oggettive;

b) la scuola è veramente formativa e aiuta gli alunni se insegna loro ad affrontare l’ansia, non se gliela risparmia, perché l’ansia è la compagna abituale dello sforzo di raggiungere qualunque obiettivo importante. Lo strumento per affrontarla è l’abitudine alla disciplina (ce lo insegna l’addestramento militare). L’idea di valutazione formativa come semplice aiuto non ansiogeno, magari soltanto descrittivo e senza voto, fa sparire dalla didattica il momento dell’educazione alla disciplina. Essa sembra presupporre che gli alunni siano già disciplinati, che quasi per natura siano attenti e capaci di ascoltare, di concentrarsi e di lavorare da soli per acquisire conoscenze e abilità generali.

Questi presupposti infondati si radicano in una sopravvalutazione ideologica dei bambini e degli adolescenti e nel misconoscimento della natura discorsiva della conoscenza scolastica. Disciplinare gli alunni in modo da corroborarli contro l’ansia è invece uno dei compiti principali della scuola; la stessa valutazione formativa può dunque essere veramente tale solo in quanto non sia disgiunta da una misura di severità, variabile secondo i contesti.

4 Commenti

  1. Penso a un genitore preoccupato per un figlio o una figlia perfettamente sana che però mostra una certa gracilità e un totale disinteresse per la pratica di qualsiasi sport o attività fisica. Il genitore si attiva e cerca di indurre il figlio a frequentare una palestra. Cosa si aspetta dall’istruttore? Che prepari un programma di esercizi certo inizialmente facili, leggeri, ma che via via divengano più impegnativi, più frequenti, più “faticosi” così da portare le “competenze ginnico-muscolari-sportive” a un livello più desiderabile. La scuola italiana invece si comporta come un allenatore che dice al genitore “guardi suo figlio non ce la può fare lo lasci ai social, alla play-station, etc.”

    1. È esattamente la situazione con cui mi confronto quasi ogni giorno.
      Il problema è, al tempo stesso, ben visibile e sottile.

      Se la scuola italiana dicesse al genitore ‘Guardi, suo figlio non ce la può fare…’ il passo successivo, a rigor di logica, sarebbe il ritiro dell’allievo dalla scuola ed il suo collocamento in un contesto, scolastico o lavorativo, all’altezza di ciò in cui ‘ce la può fare’.

      In sintesi: una bella scuola professionale, ma ben fatta, oppure l’avviamento ad uno dei tanti corsi disponibili, giusto per imparare quattro cose, senza lambiccargli il cerebro con espressioni, equazioni e quella buon’anima di Euclide.

      Eh, ma qui viene il bello: e l’orgoglio di mamma e papà, mediamente grandi campioni di telecomando in salotto, che voglio vedere il pargolo uscire da un LICEO (ormai, qualsiasi scuola superiore è stata promossa, de jure, liceo…), proprio come i figli di quelli che contano?

      L’oggetto del desiderio è il titolo di studio: ovviamente, nessuno, o pochi eletti, massacrati da compagni e docenti, ha capito che il titolo dovrebbe sancire la conoscenza di ciò che si presuppone studiato e assimilato negli anni precedenti.

      Per cui, come per magia, d’un lato la scuola diventa un’estensione al coperto di un normale cortile o campo giochi, nel contempo garantisce, sulla base di puri ‘gettoni di presenza’, di poter arraffare alla fine della corsa il tanto desiderato pezzo di carta.

      Mi sento dire da amiche che hanno i nipotini alle medie: Troppi compiti, non hanno il tempo per stare tra loro, per andare a giocare… Eliminiamo i corsi extrascolastici, che sia la capoeira o il corso di mimo: se qualcuno ha quella vocatio, si farà un’eccezione.

      Stacchiamo telefoni, televisori e rumori ambientali, mentre si studia. Ma, soprattutto, studiamo sino dalla prima elementare. Ci sono cose che devono diventare naturali, un riflesso automatico.
      Non posso, se chiedo a un allievo di prima superiore: ‘Cosa fa 3 x 4’? vedere che conta malamente con le dita e, di solito, fornisce un risultato sbagliato.
      Certo, che deve capire il significato della moltiplicazione: ma non posso dopo N volte, ricorrere alla definizione e a dita e segnetti per dire cosa fa 3 x 4.
      Se determinate cose non divengono un automatismo, non si arriverà mai a vederle ‘al volo’, come le espressioni richiedono, per fare le semplificazioni, per dirne una.

      Altro esempio: cosa fa, 16 : 2? Risposta: boh. Allora, mettiamo sedici monete da un euro qui in mezzo. Ce le dobbiamo dividere tu ed io. Prendiamo le prime dieci: quante a te e quante a me? Cinque.
      Fantastico. Ma ce ne sono altre… Sì, sei. E queste, come le dividiamo? Tre a te e tre a me…
      E adesso, ognuno di noi, quante ne ha? Ahhhhh…. otto. Era facile.
      Altre che facile. Ma scoprirlo come un’illuminazione a 15 anni, mi induce tante, tante e amare riflessioni.

  2. @ Angelo Bertozzi Nella scuola italiana non esistono precettori che si occupano esclusivamente di un alunno. Ci sono le classi scolastiche e si lavora con la classe e per la classe. Gli insegnanti sono abbastanza onesti dal far capire sia ai genitori che ai figli che se mancano l’interesse, l’impegno e la disciplina i risultati non possono arrivare. L’istruttore della palestra queste cose non le dirà mai, perché ha paura di perdere il cliente. Le sta bene, forse, essere preso per i fondelli? Sta chiedendo forse alla scuola italiana di prendere per i fondelli genitori ed alunni? Sarebbe il caso di chiarire questo aspetto.

  3. La terapia cognitivo-comportamentale per la cura dell’ansia prevede un’esposizione progressiva alla fonte di ansia, non la fuga eterna. Ma qui siamo davanti alla tirannia delle buone intenzioni.

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