Brevissima storia di svantaggio socio-culturale
Ci sono differenze innegabili tra le culture e dunque anche nel modo di intendere l’insegnamento e la scuola

Circa quattordici mesi fa nella classe dove insegno è arrivata Naima (la chiamo così per comodità) dall’India. Non è stato facile per lei: la lingua da imparare da zero, l’inserimento in un gruppo già formato da due anni, le differenze culturali, la solitudine…
Le ho dato subito qualche lezione individuale di italiano ed ho parlato a lungo con lei aiutandomi con l’inglese, che lei parla in modo fluente. Naima è rimasta legata a me per averla incoraggiata, per averle procurato diversi materiali e per averle fatto raccontare tante cose di cui forse era giusto che noi insegnanti tenessimo conto. Non è stato difficile. Naima è molto sveglia, ed io sono curioso degli usi degli altri paesi: soprattutto ero curioso di sapere come funziona la scuola in India, dal momento che fu subito chiaro a tutti che, al di là del problema della lingua veicolare, Naima aveva una preparazione di base molto solida ed una autodisciplina di ferro.
Sono passati pochi mesi, ed ora Naima parla correntemente l’italiano. La sua media è tra le più alte. Si è inserita nella classe ed ha trovato un ruolo preciso: quello del calcolatore umano. Stamattina le rappresentanti stavano effettuando il controllo su una somma da raccogliere prima di un’uscita didattica: “Naima, scusa, quanto fa 23 x 14?”. “Fa 322” ha risposto lei subito, dopo nemmeno due secondi.
Tempo addietro la sua facilità e la sua rapidità avevano colpito anche me e dunque le avevo chiesto come avesse imparato a fare così bene i calcoli. Lei mi aveva risposto senza tentennamenti: “a scuola in India fare tanti calcoli, ripetere sempre, tutti. Se non fai calcoli sempre sgridare”. Buono a sapersi, quasi non mi ha stupito; come non mi ha stupito stamattina il fatto che le sue compagne abbiano avuto bisogno del suo aiuto pure per conoscere il risultato di “12×3“: in terza liceo.
Ecco, la brevissima storia dello svantaggio socio-culturale delle nostre allieve rispetto a Naima finisce qui.
Questo è veramente un bel racconto (o resoconto) di vita scolastica vissuta sul campo, dal quale traspare in maniera sobria -cioè senza sdilinquimenti “buonisti”- ma sincera, tutta la sana affettuosità professionale del vero insegnante. Che non perde mai di vista il suo ruolo.
Forse potremmo definire questa storia un “idillio” o forse anche una “immagine figurale”, perché si commenta da sé.
Bellissimo racconto, sono anche d’accordo col commento di Ettore. Chi pensa che a Scuola sia necessaria serietà e rigore (cosa peraltro che non esclude affatto che si possa lavorare con serenità e momenti di umorismo e divertimento) viene tacciato oltre che di essere obsoleto e reazionario, anche di essere insensibile, sadico. E’ una pura e semplice sciocchezza, l’insegnante vero si prende cura dei propri alunni, e vuole loro bene, anzi direi vuole il loro bene, solo che pensa che il loro bene sia quello di crescere. Questo “buonismo” da strapazzo alla fine non fa altro che mantenerli in una minorità culturale che quasi inevitabilmente diviene anche una minorità psicologica e sociale.