Buon viaggio, caro professore…

Ci ha lasciato quello che a nostro giudizio è stato l’intellettuale più fecondo e profondo degli ultimi anni, capace di coniugare lo studio nel proprio campo e l’impegno in difesa di una scuola di qualità, per tutti.


È venuto a mancare Lucio Russo, fisico e grandissimo storico della scienza. Perdiamo anche un amico simpatico, di grande ironia, nonché il compagno di numerose battaglie in difesa dell’istruzione di qualità.

L’Italia perde una mente raffinata, un intellettuale capace di grandi visioni d’insieme; la scuola in particolare perde l’autore dell’acuto pamphlet “Segmenti e bastoncini”, che già nel 1998 fotografò la catastrofe montante, e tutte le assurdità che si nascondevano e ancora nascondono dietro la volontà dichiarata di svecchiare un’istituzione largamente imperfetta, ma ancora valida.

Ricordiamo il professore riportando uno dei suoi tanti passi illuminanti. Lucio Russo era capace di una prosa classica, chiarissima e profonda allo stesso tempo:

Qualcuno mi ha accusato di avere scritto un libro “poco chiaro” perché può essere letto senza capire le scelte elettorali dell’autore. Si tratta di una critica che non merita una risposta, ma una riflessione. Trascurando attacchi umoristici, suggeriti dal gusto del paradosso, vengo alle critiche più serie. Ai tanti che hanno trovato debole il mio pamphlet nella parte costruttiva posso dire solo che hanno ovviamente ragione. Le poche idee di tipo “positivo” da me accennate hanno lo scopo di indicare l’irrinunciabilità di alcuni contenuti e non quello di formulare una proposta alternativa. Sono molto lontano dall’idea che i problemi della scuola italiana possano essere risolti con la semplice difesa dell’esistente, ma la progettazione della scuola del futuro non può certo essere cercata tra le righe di un pamphlet; essa richiede quel dibattito e quell’elaborazione collettiva di cui qui ho cercato di denunciare l’assenza.

Vengo al punto più dolente: il mio provocatorio accenno al “diritto all’ignoranza”, che ripugna a molti sinceri democratici. Ovviamente mi riferivo a un “ignoranza” relativa, e non a un diritto-dovere all’analfabetismo (che ha altri, ben più potenti, sostenitori). Chi pensa che non sia giusto concedere libertà di scelta tra diversi possibili livelli di cultura (e quindi anche, inevitabilmente, di relativa ignoranza) deve decidere se la scelta di dedicare tutta la vita allo studio dovrà essere vietata oppure resa obbligatoria.

Ritornando alla scuola secondaria, credo che uno stato democratico possa e debba porsi contemporaneamente diversi obiettivi: raggiungere il massimo livello possibile nella preparazione dei migliori studenti delle migliori scuole pubbliche; garantire il livello precedente a chi ha interessi e capacità sufficienti, indipendentemente dalle sue condizioni economiche; stimolare gli interessi e le capacità di tutti; garantire a tutti una formazione dignitosa. Si tratta di obiettivi che se sono perseguiti contemporaneamente possono portare a un progressivo miglioramento della qualità della scuola pubblica. Se invece pensiamo di non doverci occupare degli studenti che possono raggiungere una formazione di qualità superiore a quella minima, inneschiamo un progressivo peggioramento, adattando la qualità della scuola pubblica a minimi sempre nuovi. In questo modo possono essere raggiunte due mete: quella di riservare la cultura alle famiglie che possono mandare i propri figli in costose scuole d’élite, straniere o private, oppure un crollo culturale epocale, con la perdita definitiva e irreversibile di importanti strumenti concettuali. Insegnare il metodo dimostrativo soltanto al 5% della popolazione, come alcuni stimano avvenisse nella scuola italiana di qualche decennio fa, è poco democratico, ma, se vi è la volontà politica di farlo, si possono forse generalizzare queste conoscenze nell’arco di un paio di generazioni. La scelta, apparentemente più democratica, di eliminare del tutto il metodo dimostrativo dalle scuole, concentrando l’insegnamento su quegli aspetti pratici della matematica che sono considerati più accessibili alla generalità degli studenti, potrebbe invece rivelarsi irreversibile, negando uno strumento intellettuale importante alla totalità delle generazioni future. Non bisogna dimenticare che le conoscenze non possono essere “congelate”, senza essere praticate, per più di una generazione.

Oltre quella, per così dire, “verticale”, tra scuole migliori e peggiori, esistono differenze “orizzontali” tra scuole con diversi obiettivi: chi vuole diventare un violinista non può seguire la stessa scuola di chi aspira a essere un disegnatore o un classicista. Ciascuno di noi può rinunciare al violino, al disegno professionale o alla lingua greca. Se però, confondendo le esigenze individuali con quelle sociali, si decidesse di concentrare l’insegnamento, per tutta la durata dell’obbligo, alle sole conoscenze giudicate “irrinunciabili” per chiunque, è chiaro che priveremmo il paese di competenze essenziali, poiché non si può diventare violinista o disegnatore iniziando a suonare o a disegnare dopo i diciotto anni (né un matematico imparando cos’è un teorema alla scuola di dottorato)

[da Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano, 1998]



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Foto di copertina di: .mau. di Wikipedia in italiano – Trasferito da it.wikipedia su Commons., CC BY 4.0, Collegamento al file originale

Un commento

  1. Sì, Lucio Russo è stato veramente, oltre che un ottimo docente e un brillante ricercatore, quello che un tempo la società italiana aveva e ora non trova quasi più: un intellettuale. Per questa parola non servono aggettivi qualificativi: o lo si è, o non lo si è.
    Ci mancherà.
    I suoi scritti, le sue conferenze e le sue lezioni sono un patrimonio prezioso, che la scuola deve ancora in larga parte scoprire. Speriamo che lo faccia, prima della fine.

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