Cristiano Corsini e la vuota retorica della “scuola senza voti”

Un dirigente scolastico risponde ad uno dei protagonisti della lunga campagna contro i voti.


Cristiano Corsini, professore di pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre, è tra i principali sostenitori della cosiddetta “scuola senza voti“. Le sue pubblicazioni, tra cui La fabbrica dei voti e vari articoli divulgativi, propongono una visione della valutazione scolastica che si fonda su una critica radicale al voto numerico, ritenuto fonte di ansia, discriminazione e fallimento educativo. Ma dietro questa retorica si cela una pedagogia che confonde il disagio con la diagnosi, l’ideologia con la soluzione.

Il voto come “celebrazione dell’errore”: una caricatura pedagogica

Una delle affermazioni più assurde e ricorrenti nella retorica anti-voto è che “il voto celebra l’errore”. Corsini e i suoi epigoni sostengono che il voto si concentra solo su ciò che manca, su ciò che non funziona, e che quindi genera frustrazione, ansia e competizione. Ma questa visione è una caricatura ideologica, non una descrizione pedagogica seria. Infatti, il voto non celebra nulla, bensì rileva, misura, orienta. È uno strumento di feedback sintetico che permette all’alunno di capire dove si trova nel percorso di apprendimento. Se uno alunno/studente prende 9, quel voto riconosce competenza, padronanza, impegno. Se prende 4, lungi dal “condannarlo”, segnala un bisogno di intervento, di chiarimento, di recupero. Dire che il voto “celebra l’errore” è come dire che il termometro “celebra la febbre”. È una metafora vuota, che confonde lo strumento con il problema.

Esempio concreto: il tema di italiano. Due alunni scrivono un tema. Il primo ha una sintassi corretta, un lessico ricco, una buona coerenza argomentativa. Il secondo ha frasi sgrammaticate, idee confuse, errori ortografici. Il voto serve a differenziare le due prestazioni, a dare un riscontro chiaro, a permettere a ciascuno di capire dove si trova e dove deve andare. Senza voto, si finisce nel paternalismo descrittivo: “Hai fatto un buon lavoro, ma potresti migliorare…” — che non dice nulla, non orienta, non responsabilizza.

L’errore è parte del processo di apprendimento, certo. Ma non è un valore in sé. È utile solo se viene analizzato, corretto, superato. La pedagogia seria usa l’errore come trampolino per il miglioramento, non come decorazione retorica. Il voto è uno degli strumenti più efficaci per farlo, proprio perché trasforma l’errore in consapevolezza, non in “feticcio”.

Come scrive Dylan Wiliam, uno dei massimi esperti di valutazione formativa:
L’apprendimento è impossibile senza feedback. E il feedback è inutile se non è chiaro, misurabile e orientato all’azione.” Il voto, se ben usato, non è una punizione, ma una bussola. Chi lo demonizza lo fa per ideologia, non per pedagogia.

Il mito della scuola senza voti: la Finlandia e il fraintendimento pedagogico

Uno degli argomenti preferiti dai sostenitori della “scuola senza voti” è il presunto esempio virtuoso della Finlandia, spesso citata come Paese che avrebbe “abolito” la valutazione numerica. Ma questa è una distorsione ideologica, non una realtà documentata. In Finlandia, i voti non sono stati aboliti, bensì introdotti a partire dai 13 anni, nella scuola secondaria inferiore (yläkoulu). Nella scuola primaria (alakoulu), si privilegia una valutazione descrittiva e formativa, ma non si rinuncia affatto alla misurazione, né tantomeno alla selezione (già a partire dalla scuola primaria, infatti, il sistema finlandese NON esclude la bocciatura, laddove nelle scuole secondarie superiori, a partire dai 15 anni, la selezione è molto dura! Fonte governativa finlandese qui e fonte Eurydice qui). Già nelle medie inferiori, come detto, e nel ciclo superiore, nelle prove nazionali e negli esami di accesso all’università i voti ritornano e sono utilizzati in maniera obiettiva da parte dei docenti nella valutazione. Che il sistema finlandese sia “senza voti” è dunque, come visto, un’affermazione destituita di ogni fondamento.

C’è da aggiungere che i risultati PISA della Finlandia, sebbene ottimi, non sono più ai vertici mondiali come negli anni ’10 del 2000. Da quando in quel Paese si è attenuata la pressione valutativa per gli alunni dei primi anni di scuola (con l’estromissione dei voti numerici alla primaria), guarda caso… si è registrata una progressiva flessione nei risultati di matematica e scienze.
Questo, pur non prova che i voti siano la ragione prima del successo, in ogni caso smentisce clamorosamente, nei fatti, l’idea che eliminarli migliori automaticamente l’apprendimento.

Ma proseguiamo con il confronto internazionale: dove la scuola funziona, i voti ci sono. Nei Paesi che contano davvero a livello educativo — Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Canada — la valutazione numerica è presente, strutturata e centrale:

  • in Giappone, gli alunni sono valutati con punteggi fin dalla scuola primaria, e il rigore valutativo è considerato parte integrante della formazione del carattere;
  • in Corea del Sud, il sistema scolastico è tra i più competitivi al mondo, con valutazioni continue e standardizzate;
  • negli Stati Uniti, i voti (letter grades e GPA) sono il fulcro del percorso scolastico e universitario;
  • nel Regno Unito, esistono livelli e punteggi in ogni fase, con esami nazionali come GCSE e A-level;
  • In Germania, la valutazione numerica è presente fin dalla Grundschule (scuola primaria), con voti da 1 a 6;
  • in Francia, il sistema è fortemente meritocratico, con voti numerici e classifiche fin dalla scuola media;
  • in Canada, i voti sono presenti in tutte le province, con rubriche chiare e punteggi comparabili.

In tutti i summenzionati Paesi (universalmente annoverati tra i primi al mondo tra le democrazie, laddove è opportuno, per ovvi motivi, non considerare le autocrazie della Cina, della Russia, ecc.) la valutazione numerica non è vista come un ostacolo, bensì come uno strumento di trasparenza, equità e orientamento. E i risultati sono chiari: essi risultano tra i migliori al mondo in termini di acquisizione di conoscenze e competenze, accesso universitario, mobilità sociale e preparazione al lavoro.

Il mito della “scuola senza voti” è una costruzione ideologica che non trova alcun riscontro nei sistemi scolastici più efficaci del mondo. Dove la scuola funziona, i voti ci sono, e sono utilizzati con intelligenza, non con furore punitivo. L’idea che abolire i voti migliori l’apprendimento è solo una infondata illusione ideologica, lungi dall’essere non una “conclusione scientifica”, come qualcuno vorrebbe far credere. Rinunciare alla valutazione numerica non è innovazione: è una fuga dalla responsabilità educativa. Quando ne “La fabbrica dei voti”, Corsini scrive: “Il voto è il luogo in cui l’errore viene celebrato” afferma una sua costruzione mentale, che nulla ha a che fare con la realtà, come ampiamente dimostrato qui.

La retorica del “non sei un numero”: slogan vuoti e realtà ignorata

Uno degli slogan più abusati dai pedagogisti anti-voto è il celebre “lo studente non è un numero”. Frase ad effetto, certo, ma priva di sostanza pedagogica. Nessuno — nemmeno il più rigido dei docenti — ha mai pensato che un alunno fosse “solo” un numero. Il voto non definisce la persona, bensì descrive una prestazione in un contesto specifico. Confondere l’identità con la valutazione è anche un errore logico, prima ancora che educativo.Il voto non è un’etichetta esistenziale, ma uno strumento di orientamento.  Esso serve a capire dove si è, cosa si è acquisito, cosa manca. È una sintesi, non una sentenza. Dire “sei un 4” è sbagliato, e nessun docente, del resto, si sognerebbe di pronunciare una frase del genere. Dire “hai preso 4 in questo compito perché non hai dimostrato competenza su questi punti” è onesto, chiaro, utile.

Nella vita reale, inoltre, i numeri contano, eccome! La retorica “non sei un numero” si sgretola appena si esce dalla bolla pedagogica. Nei concorsi pubblici, si vince con un punteggio. Nell’università, si accede con un voto.  Nel mondo del lavoro, si viene selezionati in base a performance misurabili. Persino nella sanità, si valutano i pazienti con scale numeriche (VAS, Glasgow, ecc.). Pretendere che la scuola sia esente da ogni forma di misurazione significa preparare i ragazzi a un mondo che non esiste; è come insegnare a nuotare senza mai entrare in acqua.
La pedagogia emotiva che rifiuta i voti lo fa in nome dell’inclusione. Ma includere non significa rinunciare a valutare. Al contrario:

  • una valutazione chiara, trasparente e misurabile aiuta gli studenti fragili a capire dove migliorare;
  • l’assenza di essa, invece, li condanna all’ambiguità, alla dipendenza dal giudizio soggettivo, alla frustrazione di non sapere mai “quanto vale ciò che so”. Come scrive Carol Dweck, autrice della teoria del growth mindset: “La chiarezza del feedback è ciò che permette la crescita. Senza misurazione, non c’è direzione.”

Il voto, dunque, lungi dal ridurre l’alunno/lo studente “a un numero”, lo aiuta a diventare consapevole del proprio percorso. Chi lo demonizza fa ideologia, non pedagogia; e chi ripete “non sei un numero” dovrebbe chiedersi se preferisce essere un’incognita.

Il paradosso della coerenza ideologica

Corsini sostiene che ogni scelta educativa debba essere “coerente con una visione dell’essere umano“. Ma anche l’errore può essere coerente, pur se la coerenza, in sé, non è un valore assoluto, in quanto è la qualità dell’idea a determinarne la legittimità. Una pedagogia che rinuncia alla misurazione, alla responsabilità, alla fatica, tradisce il compito più alto della scuola: formare cittadini competenti, consapevoli e capaci di affrontare la complessità del reale.

Le teorie di cui trattasi, alla fine, si rivelano piene di buone intenzioni, ma propongono strumenti non solo inefficaci, bensì, come qui dimostrato, assolutamente deleteri per gli apprendimenti. Sono un invito per gli alunni a rinunciare alla misurazione, alla responsabilità, alla fatica. Ed in fin dei conti tradiscono il compito più alto della scuola: formare cittadini competenti, consapevoli e capaci di affrontare la complessità del reale. La scuola senza voti non è una scuola “più giusta”: è una scuola più cieca. E chi la promuove non sta innovando: sta disarmando, danneggiando chi apprende, la cultura ed in fin dei conti la società.

Un commento

  1. Ottima analisi e chiarimenti utilissimi. A me sembra che le posizioni come quella di Corsini e tante altre simili si basino, oltre che su elementi fortemente ideologici (come ben sottolineato nell’articolo), su una premessa implicita: i docenti che insistono, con ottimi motivi, a considerare ed usare il voto come uno strumento utile e sostanzialmente insostituibile per l’insegnamento, sono persone “dure”, che giudicano implacabilmente i ragazzi a livello personale, umiliandoli senza appello. Questa premessa è evidentemente falsa. Può effettivamente essere che qualcuno si comporti così, e quel qualcuno è un pessimo insegnante e lo sarebbe anche non usando i voti. Ma attribuire questo atteggiamento alla generalità degli insegnanti è semplicemente ingiurioso. La logica aristotelica e anche il semplice buon senso ci dicono che un ragionamento che parte da premesse false conduce a conclusioni false, alla faccia della “scientificità” tanto amata e sbandierata da questi pedagogisti.

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