I DSA nella scuola italiana: il ruolo della scuola primaria
Alla presenza di un numero crescente di scolari e studenti con diagnosi di dsa dovrebbe corrispondere non solo un’azione didattica efficace, ma anche un’analisi spassionata ed obiettiva di un fenomeno che mette a nudo l’irrazionalità di fondo di alcune dinamiche che attraversano la scuola italiana.

Una scuola in affanno
“Attualmente, si stima che circa un terzo dei bambini venga segnalato come fragile o neurodivergente e venga inviato ai centri di neuropsichiatria infantile per gli approfondimenti del caso”.
Il fenomeno dell’esplosione di disagi di varia natura tra bambini e ragazzi è ampiamente dibattuto. Tanto da aver attirato l’attenzione anche sul piano politico. Il 22 luglio scorso, il Garante dell’infanzia e dell’adolescenza Marina Terragni ha evidenziato, nel corso di un incontro istituzionale, l’aumento preoccupante di diagnosi di vario tipo in ambito scolastico. La rilevanza dei casi pone il mondo della scuola davanti a diversi interrogativi. Si cercano affannosamente soluzioni per sostenere una scuola sempre più in difficoltà, ma ci si chiede, soprattutto, dove fossero tutti questi bambini e ragazzi così problematici venti o trent’anni fa.
Oltre che di disagio psicologico, da monitorare poiché sempre più presente nelle sue varie forme, si parla di disturbi dello spettro autistico, di deficit di attenzione e iperattività, dei diversi problemi cognitivi in aumento costante. Attualmente, si stima che circa un terzo dei bambini venga segnalato come fragile o neurodivergente e venga inviato ai centri di neuropsichiatria infantile per gli approfondimenti del caso. Per alcune situazioni si entra nel campo della vera e propria disabilità, ma un posto rilevante, nel panorama diagnostico, è occupato dai disturbi specifici dell’apprendimento.
Gli insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria, in questo frangente, si trovano a gestire situazioni delicate, che riguardano le famiglie, ma anche i colleghi che, più tardi, riceveranno gli alunni alla scuola secondaria. Da un lato vengono attaccati se non hanno prontamente segnalato alla famiglia le difficoltà, finendo per essere considerati, tra l’altro, superficiali, poco accorti e anche impreparati; dall’altro vengono considerati, da genitori apprensivi e poco dialoganti, alla stregua di stalker, qualora insistano sulla necessità di portare in valutazione un alunno in difficoltà. Ma come stanno realmente le cose?
Centri neuro-psichiatrici pubblici e privati. L’aumento delle certificazioni di d.s.a.
“Le diagnosi vengono rilasciate… senza approfondire cosa abbia impedito al bambino di arrivare al livello atteso”
La segnalazione di fragilità e, quindi, di qualche problema da approfondire, viene evidenziata dagli insegnanti nell’arco del primo biennio della scuola primaria. Se ne discute negli incontri collegiali e se ne inizia a parlare con la famiglia. Il suggerimento, caldeggiato anche dalle numerose associazioni di specialisti che si occupano di formare gli insegnanti attraverso corsi specifici e che spesso propongono screening già nelle classi iniziali della primaria o, addirittura, all’infanzia, è quello di indirizzare quanto prima i genitori verso un centro di neuropsichiatria infantile. Ce ne sono tanti, pubblici, all’interno delle diverse aziende ospedaliere, con liste d’attesa lunghissime. Negli ultimi anni, però, si osserva una sorprendente proliferazione di centri privati, che vanno incontro all’esigenza dell’utenza senza che sia necessario attendere dei mesi o degli anni per una valutazione. Invariabilmente, l’alunno sottoposto alle visite uscirà dall’ambulatorio con una diagnosi.
È necessario precisare che nessuno pensa di negare l’esistenza di disturbi cognitivi o problemi come l’Adhd. Per i disturbi dell’apprendimento, però, sempre più diffusi, sorgono delle perplessità. Il problema da indagare è, infatti, l’aumento inquietante di queste diagnosi e le modalità con cui vengono stabilite. Occorre capire dove esistano problemi clinici (se così si possono definire) e dove le diagnosi vengano rilasciate esclusivamente sulla base di risultati non raggiunti secondo gli standard di riferimento, ma senza approfondire cosa abbia impedito al bambino di arrivare al livello atteso. Si tratta, nella maggioranza dei casi, di una fotografia che fissa un momento dell’apprendimento, senza indagare il pregresso e che limita fortemente le possibilità che il bambino potrà avere successivamente a quell’istantanea, scattata in un ambulatorio medico, in un momento a caso della sua infanzia.
Ci sono delle incongruenze, in questa situazione, che dovrebbero saltare all’occhio. Per esempio l’assenza totale di confronto tra staff medici e insegnanti, il fatto che gli specialisti non abbiano competenze di tipo didattico e non conoscano le metodologie che la scuola adotta per raggiungere gli obiettivi, la mancanza di indagine sulla storia scolastica dell’alunno e la rinuncia a comprendere dove e perché i progressi di quel bambino abbiano subito un arresto. Inoltre, sono poco indagate le difficoltà legate a un eventuale disturbo ortottico, poco considerato e che può inficiare l’intera diagnosi, lasciando che si ritenga insanabile ciò che potrebbe avere ampie possibilità di recupero con interventi mirati e finendo con l’indicare per l’alunno un tipo di supporto inadatto alle sue effettive necessità.
Affermare, ad esempio, che un bambino sia disgrafico, significa fissare nel tempo una condizione in evoluzione, bloccandone gli sviluppi e dando per certo che non possa modificarsi. Conclusione irragionevole, soprattutto se si tratta di alunni della scuola primaria.
Spesso, infatti, le diagnosi si assomigliano, sono piuttosto generiche e gli strumenti suggeriti alla scuola per supportare un alunno carente sono quelli dispensativi e compensativi prescritti dalla legge 170/2010 sui d.s.a. Intanto, alla famiglia, confusa, disorientata e con in mano la diagnosi, viene suggerito di affiancare al bambino o al ragazzo un tutor dell’apprendimento specializzato, a casa, che semplificherà ogni aspetto del percorso scolastico, dalla seconda/terza primaria al diploma e anche oltre, con ampio uso della tecnologia e con la proposta di utilizzare strumenti di vario genere, dal semplice registratore a sofisticate smartpen in grado di leggere un testo al posto dello studente, da app per sintesi vocali a software capaci di costruire mappe concettuali e percorsi facilitati su qualsiasi disciplina, in modo da rendere accessibile ogni aspetto del percorso didattico. Non è un dettaglio che l’impegno economico per la famiglia possa essere davvero importante. Parallelamente inizia, per il bambino/ragazzo, un doloroso percorso di consapevolezza che lo porterà comunque, anche qualora le difficoltà rilevate fossero di lieve entità, a sentirsi inadeguato e a sviluppare una bassa autostima, che devasterà le possibilità di applicarsi serenamente al lavoro. Come ben sanno gli insegnanti, inoltre, l’inclusione sbandierata nelle scuole presenta diverse zone d’ombra. Gli strumenti compensativi e le misure dispensative non sono affatto garanzia, per chi è portatore di un disturbo dell’apprendimento, di reale padronanza del materiale di studio.
L’interessamento della memoria di lavoro, in questi casi, tende a rendere estremamente labili e provvisorie le conoscenze, tracciando un percorso irregolare e accidentato, disseminato di lacune e competenze incerte.
Un’analisi delle cause parziale, a volte miope
“Il dilagare dei d.s.a. a ben guardare, segue curiosamente l’adozione, nella scuola primaria, delle metodologie innovative e l’avvento delle tecnologie educative”.
La situazione, nelle scuole, sta diventando sempre più difficile, con un tasso di certificazioni ogni anno più consistente. Si ricercano le cause del disagio in più direzioni. Nell’esposizione precoce ai device tecnologici, nella riduzione del gioco libero e nel mancato esercizio spontaneo di abilità motorie che andranno, in seguito, ad incidere sui percorsi di apprendimento, nell’eccesso di accudimento familiare che impedisce ai più piccoli di confrontarsi con esperienze di adattamento, fino a spingersi verso motivazioni di tipo organico e genetico. Si parla di possibile origine neurobiologica, di immaturità nello sviluppo di alcune aree cerebrali o di una non meglio identificata “diversa modalità di elaborazione delle informazioni” da parte del cervello. Le ipotesi sono tante, ma poco si guarda al percorso stesso di apprendimento che precede l’insorgere delle difficoltà.
C’è, infatti, un aspetto che non emerge mai dagli studi sull’origine delle difficoltà scolastiche. Il dilagare dei d.s.a. a ben guardare, segue curiosamente l’adozione, nella scuola primaria, delle metodologie innovative e l’avvento delle tecnologie educative. Nel panorama desolante degli ultimi trent’anni, in cui si sono gradualmente abbandonate metodologie efficaci per l’insegnamento della letto-scrittura, delle basi della matematica, del metodo di studio, per abbracciare una didattica lontana da pratiche e abitudini scolastiche considerate obsolete e inadatte agli alunni attuali, si assiste a una progressiva perdita di sicurezza nelle abilità di base e alla contemporanea diffusione dei disturbi dell’apprendimento. Un caso?
Sicuramente, ribadiamo, alcuni alunni presentano oggettive difficoltà nell’elaborazione delle informazioni da parte del cervello legate alla sfera delle disfunzioni visuo-percettive, faticano a decifrare il materiale didattico, dispongono di una limitata memoria di lavoro che rende ogni apprendimento incerto e instabile. Certe particolarità potrebbero far parte di un quadro più ampio o essere in comorbidità con vere e proprie patologie. Ma possono mai riguardare otto, dieci alunni per classe? Proviamo a capire cosa sia accaduto in questi anni.
Una ricostruzione storica del problema
“L’ondata di riforme che si sono riversate sulla scuola primaria dagli anni duemila in poi, che ne hanno snaturato il compito, che hanno promosso una secondarizzazione insensata…”
Dalla fine degli anni ottanta, ma si potrebbe andare ancora indietro per individuare l’origine di certe problematiche, si sono gradualmente, ma inesorabilmente, abbandonate pratiche didattiche tradizionali, certamente poco appariscenti e invitanti, ma che garantivano, in una percentuale molto alta, l’apprendimento delle abilità di base. Nuove metodologie, incentrate sull’apprendimento spontaneo ed esperienziale, provenienti, dall’esperienza anglosassone, hanno lentamente soppiantato le metodologie più collaudate. Già intorno ai primi anni novanta, in cui la sostituzione metodologica si incrociava con l’attuazione della riforma dei moduli, molte attività erano poco praticate, soprattutto in scuole di realtà urbane, soggette a sperimentazioni e didattica innovativa. Quindi, minore spazio all’esercizio della lettura in classe, abbandono del fastidioso dettato e dei noiosi esercizi di ortografia, demonizzazione della memorizzazione (perciò niente poesie e filastrocche mandate a memoria, poca attenzione all’acquisizione delle tabelline, delle formule geometriche, dei verbi), meno esercizio riguardante il calcolo veloce, le quattro operazioni, l’applicazione di formule di geometria, abbandono dell’apprendimento di un metodo di studio ispirato alle metodiche tradizionali (leggo, comprendo, sottolineo, riassumo, ripeto), tutto gradualmente lasciato andare a favore di manipolazione, percorsi tattili e sensoriali, esperienze in natura, lavoro di gruppo su argomenti condivisi, giochi didattici. Via la poesia di Pascoli mandata a memoria e largo alla realizzazione di mostre espositive, spettacoli teatrali, organizzazione di eventi e manifestazioni ben più motivanti di un’esercitazione sulla coniugazione dei verbi passivi. In quegli anni, mentre le insegnanti più anziane esitavano davanti alle novità, seguitando a lavorare in modo tradizionale, la condivisione obbligata della scuola modulare, le compresenze, le programmazioni comuni, permettevano alle insegnanti più giovani di osservare metodologie di lavoro consolidate nel tempo, pratiche tramandate da una generazione all’altra di maestre e maestri, testi e strumenti di comprovata efficacia. Si è venuta a costituire, così, una classe di insegnanti, che oggi ha tra i cinquanta e i sessant’anni, formatasi proprio a cavallo tra tradizione e innovazione, tra abitudini didattiche sperimentate nel tempo e nuove metodologie, che ora, la scuola, liberatasi finalmente dei docenti “vecchio stampo” e proiettata verso il radioso futuro attraverso le nuove leve, che mai hanno avuto in mano un abbecedario, tenta in ogni modo di arginare e isolare poiché, come mine vaganti, sono lì, sfuggenti e molesti, ad unire i puntini per capire come si sia arrivati al caos.
L’ondata di riforme che si sono riversate sulla scuola primaria dagli anni duemila in poi, che ne hanno snaturato il compito, che hanno promosso una secondarizzazione insensata, con indicazioni di lavoro sempre diverse e con la moltiplicazione di metodologie e orientamenti didattici, ha sommerso la riflessione avviatasi negli anni precedenti, impedendo una rielaborazione ragionata del valore delle novità e travolgendo la cosiddetta “didattica tradizionale”.
Negli ultimi anni, il tramonto della scuola modulare, lo stravolgimento della scuola a tempo pieno (privata delle compresenze che rappresentavano una caratteristica peculiare di questo modello scolastico e permettevano il confronto tra generazioni di insegnanti) e la graduale uscita di scena, per raggiunti limiti di età, di quelle maestre depositarie di un certo modo di fare scuola, hanno lasciato non poco smarrimento.
Il dibattito dal basso si è successivamente arenato, man mano che gli organi collegiali si svuotavano di senso e che sparivano i circoli didattici per fare posto ai mega istituti comprensivi in cui convivono, tollerandosi e non confrontandosi su nulla, ordini di scuola differenti. Sono stati anni difficili, in cui abbiamo visto una gragnuola di indicazioni divergenti e schizofreniche abbattersi sulla scuola primaria. Intanto, le università iniziavano a formare le prime maestre della nuova era, digiune di metodologia e didattica e ferratissime in teorie pedagogiche scarsamente traducibili sul piano del lavoro pratico, mentre il campo veniva invaso dagli “esperti” che finivano di demolire le abitudini didattiche più consolidate e che da ormai una quindicina d’anni assediano ogni spazio disponibile, dettando legge su qualunque aspetto della didattica, e che hanno imposto la sostituzione di prassi metodologiche tradizionali con indicazioni vaghe e inconcludenti.
Il disastro
“…otteniamo generazioni di alunni che difficilmente padroneggeranno le abilità essenziali per costruire il resto degli apprendimenti”.
Scendendo sul pratico, oggi un insegnante di scuola primaria deve temere di proporre i quattro caratteri di scrittura contemporaneamente, di lavorare sul corsivo in prima, di proporre l’obsoleto dettato, gli esercizi di ortografia e non si sfiori la pratica imbarazzante del copiato! Insostituibile nelle prime fasi dell’apprendimento della scrittura, ma mai più annoverata tra le proposte di lavoro consentite. Si tollera appena che qualcuno ancora tenti di insegnare a fare un riassunto, proponga la memorizzazione delle tabelline, le esercitazioni sul calcolo rapido, l’algoritmo delle operazioni in seconda (fino alla quarta, non se ne dovrebbe parlare! Ma dove siamo?), l’analisi grammaticale, logica, gli esercizi di coniugazione dei verbi e tutte quelle attività che costituivano la pratica didattica quotidiana fino a qualche decennio fa. Acquattati dietro ogni angolo possono esserci i temibili professionisti dell’istruzione…schiere di pedagogisti, logopedisti, neuropsicomotricisti, psicologi, rieducatori, tutor, sono lì a verificare che tutto venga svolto secondo gli specifici dettami della più moderna ricerca in campo pedagogico e didattico. Il lavoro che a un insegnante è permesso proporre è totalmente esperienziale e basato su sollecitazioni emotive. È necessario che desti interesse e promuova la motivazione, che sia divertente, accattivante, empatico e rilassante. Via all’uso della tecnologia in aula: gamification, applicazioni didattiche, video, film. Il resto del tempo è dedicato al lavoro di gruppo, agli innumerevoli progetti, alla preparazione di manifestazioni (valorizzazione del territorio, ecologia, lotta alle mafie, pace, approfondimento della storia locale), ad incontri con gli autori di libri, con rappresentanti delle forze dell’ordine (cyberbullismo, prevenzione delle dipendenze), alla preparazione delle note “Giornate del…” (dei calzini spaiati, della terra, della gentilezza, della memoria, dell’acqua ecc.).
Temi e attività che possono avere una loro importanza, ma che sottraggono tutto il tempo scuola in una fase determinante degli apprendimenti. Se mettiamo insieme, quindi, la perdita di metodologie efficaci, l’abbandono delle attività basate sulla memorizzazione, la mancanza del tempo scuola necessario da dedicare all’esercizio costante e ripetuto alla base dell’apprendimento sicuro di certe abilità (lettura, scrittura, calcolo), l’introduzione delle tecnologie didattiche e, soprattutto, la mancanza, negli insegnanti, di una preparazione tecnica forte sulla didattica tradizionale, otteniamo generazioni di alunni che difficilmente padroneggeranno le abilità essenziali per costruire il resto degli apprendimenti.
Ogni cosa ha il suo tempo: le ricadute sui più fragili
“È un po’ come se a un’allieva di danza si insegnasse a fare la spaccata e, nel momento di sottoporla agli allenamenti affinché il corpo si ammorbidisca e si adatti alla richiesta, le si proponesse di lavorare sugli origami”.
Proviamo a collegare alcune osservazioni alla comparsa dei misteriosi disturbi dell’apprendimento.
I bambini dispongono di una finestra temporale per acquisire determinate abilità. C’è un momento in cui si impara ad impugnare una matita correttamente e a tracciare segni controllati su un foglio. Quando quel momento arriva, il bambino non deve essere intrattenuto con canzoncine e coreografie, portato fuori per interrare le piante di prezzemolo nell’orto della scuola o impegnato a realizzare un murales sulla pace. Deve dedicarsi, con intensità e costanza, per settimane e mesi, a quell’attività che lo porterà ad acquisire con sicurezza l’abilità ricercata. Se devo imparare a suonare il pianoforte, mi eserciterò intensamente sulle scale e mi sottoporrò quotidianamente ad esercizi faticosi e per nulla accattivanti, ma che mi porteranno a raggiungere l’obiettivo. Non si comprende come le cose dovrebbero andare diversamente per raggiungere un’abilità difficile e per niente naturale come, ad esempio, scrivere in corsivo. Spostare l’acquisizione di quell’obiettivo a un momento diverso dell’anno o addirittura alla classe seconda, come prescritto dai consueti esperti, rischia di bruciare il momento opportuno per quel tipo di apprendimento. Se, poi, mancherà anche l’allenamento quotidiano necessario, non solo l’obiettivo non verrà raggiunto, ma il bambino andrà in frustrazione, visto che gli si chiede di sostituire uno strumento che la scuola ha dato per l’espressione del pensiero scritto, lo stampato, e che lui padroneggia ormai con sicurezza. Si chiederà perché, all’improvviso, sia necessario ricominciare da capo e sostituire con un apparato di difficile acquisizione, uno strumento con cui ha imparato ad esprimersi con efficacia. Finirà che l’abilità verrà appresa male, con scarsa sicurezza e il bambino potrebbe trovarsi, un giorno, davanti al neuropsichiatra per essere dispensato dalla richiesta scolastica. In tal caso, saremmo davanti a un problema neurobiologico, di percezione sensoriale, di divergenza di elaborazione delle informazioni oppure, molto più banalmente, a una metodologia sbagliata che manca clamorosamente il risultato attraverso la proposta insensata di dedicarsi ad altro invece di battere sul consolidamento dell’abilità raggiunta, tramite attività mirate, entro la finestra di tempo utile? È un po’ come se a un’allieva di danza si insegnasse a fare la spaccata e, nel momento di sottoporla agli allenamenti affinché il corpo si ammorbidisca e si adatti alla richiesta, le si proponesse di lavorare sugli origami. Insegno al bambino la tecnica della scrittura in corsivo, poi non lo faccio esercitare, lo distraggo con mille altre attività e in quarta lo spedisco da un “rieducatore del gesto grafico” (meravigliose e incredibili specializzazioni nascono di continuo sulle macerie della didattica!) perché non riesce a scrivere in modo comprensibile. Il problema è del bambino?
Idem per la disortografia. Se non imparo a scrivere in modo ortograficamente corretto entro la terza, quarta primaria, attraverso lettura, ascolto, esercitazioni sul dettato di parole e frasi e un lavoro mirato sulla scrittura fatto, semplicemente, di continua riscrittura e ripetizione delle parole che contengono le difficoltà maggiori, che richiede tantissimo tempo e applicazione, è quasi certo che mi porterò dietro quegli errori.
Se non so le tabelline, non so operare con il calcolo mentale, non ho memorizzato le unità di misura, non ho svolto esercizi sufficienti sulle operazioni, sulle equivalenze, sul calcolo della percentuale, difficilmente il lavoro che mi verrà assegnato sarà svolto con serenità e padronanza e non recupererò in seguito. È più probabile che vada incontro a una diagnosi di discalculia, perché arriverà il momento in cui, in mancanza dei necessari automatismi, che liberano la possibilità di dedicarsi agli impegnativi step successivi, non sarò più in grado di seguire il lavoro.
Se non ho imparato a riassumere un testo entro la terza, quarta classe, ma ho svolto solo lavoro collettivo guidato, perché a scuola abbiamo fatto lo spettacolo per la difesa della biodiversità, il progetto basket e le schede sulla Giornata della terra e il tempo per l’esercizio non c’è stato, in seguito non sarò in grado di affrontare del materiale di studio consistente, avrò bisogno di poggiarmi a una mappa, necessiterò di semplificazione e di supporto, anche perché la mia memoria, mai allenata, mi permetterà di ricordare solo pochissime informazioni. Se poi l’abilità di lettura sarà incerta e il mio cervello sarà impegnato con la decodifica della parola, perderò del tutto il significato di quello che sto leggendo e potrò scordarmi di riuscire a studiare. I bambini devono necessariamente arrivare al termine della seconda classe con un’abilità di lettura sicura. È insensato pensare che abbiano tutto il ciclo per imparare a farlo. Stare nei tempi è indispensabile, perché ad ogni periodo scolastico corrisponde l’acquisizione di una precisa abilità e non si può pensare di proporre continue procrastinazioni. Ci si sta accorgendo che la mancanza di programmi prescrittivi, sostituiti con Indicazioni nazionali generiche e piuttosto vaghe, che aprono a molteplici possibilità interpretative, ha rappresentato un danno grave e determinato la mancata acquisizione di competenze fondamentali entro limiti di tempo ragionevoli.
La centralità dell’esercizio
“Quanti…nel momento intenso e delicato del lavoro sulla scrittura sono stati portati al laboratorio di ceramica, a raccogliere campioni per costruire un erbario in classe, a realizzare un cartellone per la giornata internazionale dei diritti degli animali?”
La parola magica evaporata dalla scuola primaria è: esercizio.
La scuola primaria è ripetizione, ridondanza, routine, reiterazione, ripasso. Le attività essenziali, che dovrebbero dominare tutto il tempo che i bambini trascorrono a scuola, invece, sono negate e sostituite da infiniti input dispersivi e poco significativi per questa fascia d’età.
Quanti presunti disgrafici avrebbero tratto giovamento dall’esercizio costante della manualità? Quanti vengono collocati nello spettro della dislessia quando avrebbero avuto solo bisogno di dedicarsi intensamente all’esercizio della lettura nelle fasi cruciali dell’apprendimento di questa abilità, in prima e in seconda primaria? Quanti discalculici non lo sarebbero se solo avessero potuto esercitarsi a sufficienza nel calcolo orale e svolgere abitualmente, a casa e a scuola, operazioni ed esercizi nei primi anni di avvicinamento alla materia?
Questo non significa affatto che non ci siano delle difficoltà oggettive per alcuni bambini, che necessitano di metodologie specifiche e di supporto. La dislessia associata a deficit nel sistema visuo-percettivo o visuo-spaziale, non è certo un’invenzione, ma quanti alunni per classe possono avere una problematica del genere? Quanti hanno un reale deficit delle abilità grafo-motorie che impediscono l’apprendimento del corsivo? E quanti, invece, nel momento intenso e delicato del lavoro sulla scrittura sono stati portati al laboratorio di ceramica, a raccogliere campioni per costruire un erbario in classe, a realizzare un cartellone per la giornata internazionale dei diritti degli animali? E chi continua a sbagliare le doppie, gli accenti e non sa dove mettere l’h in quinta, è disortografico o ha passato le ore di grammatica dei cinque anni precedenti a rispondere ai quiz di Wordwall e a fare esercizi collettivi guidati sul testo di grammatica riempiendo di crocette le pagine?
Troppe cose, ma soprattutto le cose e i metodi sbagliati
“Un insegnante… può riflettere criticamente sui mille ostacoli che un bambino incontra nei cinque anni di primaria e che impediscono a troppi alunni di raggiungere risultati abbordabilissimi … resi irraggiungibili dall’applicazione insensata di metodologie farlocche e da un modo di fare scuola dispersivo e inappropriato”.
E che dire della moltiplicazione inverosimile di argomenti all’interno di ogni discipina?
La scuola primaria non deve insegnare a un bambino di otto anni a distinguere flashback e flashforward in una narrazione, né guidarlo attraverso complesse indagini statistiche o spiegargli la differenza tra antropologo, etnologo e paleografo nell’affrontare per la prima volta un paragrafo di storia. Si è voluto soffocare la scuola di base con contenuti fuori dalla portata cognitiva dei bambini, per poi sottrarre loro il tempo prezioso e irrecuperabile da dedicare alle abilità essenziali e infine rispondere alle inevitabili criticità emerse con la medicalizzazione, moltiplicando etichette da assegnare ad ogni mancato apprendimento, invece di tentare, nel momento utile, di modificare le metodologie e i tempi didattici. Soprattutto nel primo triennio, sarebbe indispensabile sfrondare di discipline e argomenti il percorso, per poter tornare a concentrarsi sulle due materie cardine: italiano e matematica. Recuperare pratiche didattiche abbandonate e validissime, mettere alla porta esperti mai entrati in un’aula che propongono indicazioni fuorvianti e inefficaci, rimandare alla scuola secondaria ogni tipo di iniziativa che rubi tempo alle attività necessarie a raggiungere la padronanza delle abilità di base.
Un insegnante non può mettere in dubbio le diagnosi di dsa emesse dagli specialisti del caso, ma può riflettere criticamente sui mille ostacoli che un bambino incontra nei cinque anni di primaria e che impediscono a troppi alunni di raggiungere risultati abbordabilissimi, ma che vengono resi irraggiungibili dall’applicazione insensata di metodologie farlocche e da un modo di fare scuola dispersivo e inappropriato.
Correggere la rotta è possibile, ma facciamo presto.
Disamina millimetricamente precisa della questione, ragionamento rigoroso, ineccepibile, su un’evidenza oramai sotto gli occhi di tutti, il proliferare, in percentuali più che sospette, di certificazioni di disturbi di apprendimento negli studenti delle scuole di ogni ordine e grado.