Sapere inutile? Una confusione di idee utile a nascondere diverse verità

Da troppi decenni troppe persone amano discutere di troppe cose di scuola senza avere nessuna vocazione a chiarirle davvero

Il sistema dei licei non è tutto, certamente. Riconosco senza indugio l’importante ruolo svolto dalle scuole professionali o dagli istituti tecnici per l’economia di ogni paese avanzato. Tuttavia, anche senza addentrarmi qui nella complessa questione che riguarda il mismatch, spesso denunciato (con percepibile fastidio) dalle associazioni degli industriali italiani, tra i bisogni del mercato del lavoro e i percorsi di studio scelti dai giovani italiani, devo almeno accennare ad un fenomeno di cui si parla poco, ancor meno di quanto si parla degli altri problemi della scuola.

Anche per le scuole professionali e per gli istituti tecnici da qualche decennio si pone la questione di un approccio allo studio spesso molto evanescente, troppo blando. È giustissimo fare sempre distinzioni, s’immagini; il fenomeno riguarda la scuola nella sua generalità. Nell’epoca in cui è più chiassoso e scriteriato il richiamo pedagogico al sapere utile, alla concreta spendibilità degli apprendimenti, le scuole nelle quali l’obiettivo prioritario è proprio il conseguimento di conoscenze teoriche e pratiche professionalizzanti sembrano non di rado perseguire quell’obiettivo senza troppa convinzione. Anche in quelle scuole, anzi, forse soprattutto in quelle scuole, il meccanismo di livellamento verso il basso funziona senza trovare troppa resistenza. Per molti insegnanti e dirigenti agiscono come lubrificante il comprensibile timore dell’abbandono definitivo degli studi da parte dei ragazzi in difficoltà; le loro mille sfortune extrascolastiche, che gli insegnanti non possono risolvere; un vecchio ed erroneo retaggio che spaccia queste istituzioni come scuole di ordine minore, da cui non si può pretendere troppo; l’egualitarismo più oltranzista, che sembra far la voce grossa proprio laddove ci sarebbe più bisogno di distinguere coloro che hanno volontà di riscatto e coloro che non ne hanno affatto, o ne hanno troppo poca.

Quest’evidenza empirica mi rende molto scettico di fronte al mantra pedagogico del sapere utile e spendibile, che è talvolta adoperato dai nuovisti come una clava per demolire la scuola delle cosiddette conoscenze inutili ed astratte: se il sapere utile non è perseguito a fondo nemmeno là dove parrebbe un obbligo logico, peraltro senza che alcun nuovista trovi nulla da ridire, forse l’obiettivo è un altro, e cioè l’attacco al sapere definito “inutile”. È infatti col sapere inutile che spesso è possibile preparare teste autonome e libere da soggezioni di mille tipi, sempre che si accetti la via dello studio serio, della difficoltà e dell’impegno.

Oltre il ruolo discutibile dei pedagogisti, pure le imprese e l’industria sembrano spesso perseguire male il proprio obiettivo. L’immediata spendibilità pratica del sapere oggi significa sovente rapida obsolescenza di quel sapere. Forse l’industria ha bisogno di mano d’opera usa-e-getta? Spero ardentemente di no, ma temo sia stato a lungo così, nel nostro paese; non s’è capito del tutto che fondare la competitività delle aziende su un mercato del lavoro saturo di manovalanza subito pronta a muover le mani ma incapace di comprendere ed adoperare l’evoluzione continua dei mezzi di produzione, magari facendone un impiego creativo e concorrenziale, dà vita molto breve a quelle aziende, una volta inserite nell’agone internazionale. Se le aziende sono davvero in cerca di lavoratori, tecnici, ingegneri capaci (ciascuno per la propria mansione) di fare la differenza in termini di innovazione è bene che comprendano che le conoscenze di base di quei lavoratori devono essere solide, il più possibile complete e sufficientemente astratte da utilità effimere, così da garantire il ripensamento continuo dei sistemi, delle procedure e dei prodotti con cui esse intendono affermarsi sul mercato.

Dunque, se il sapere inutile ed astratto sembra dispiacere sia a gran parte del sistema produttivo, sia a certi Soloni della pedagogia; se, d’altra parte, il sapere utile, al di là delle chiacchiere, non sembra stare davvero a cuore a nessuno, dal momento che non se ne denuncia la carenza là dove servirebbe di più, come si può pensare la scuola, o addirittura pretendere di riformarla? Semplice: lo si fa molto male, in modo confuso, pasticciato, incongruo. Tutto sembra fuori fuoco, concepito in preda ad una frenesia che insegue l’attualità dei più svariati problemi, senza la capacità di collocarli in una prospettiva storica, senza la capacità di risolverli alla radice, e soprattutto senza la capacità di investire e di pazientare: i frutti di ciò che si semina richiedono un’attesa.

Nessuno ha mai voluto o saputo fare chiarezza su come siamo arrivati a una simile confusione di idee e scopi. E questa mancanza di chiarezza – come accade non di rado – nasconde importanti questioni rimosse dalla coscienza culturale collettiva.

Per quello che riguarda il sistema liceale italiano l’insistenza sul sapere utile sembra dannosa e sciocca allo stesso tempo. Prima di tutto perché l’utilità del sapere sta anche nella sua stessa capacità di predisporre, organizzare, disciplinare e supportare con una quantità adeguata di conoscenze le facoltà intellettive dell’individuo che pensa la realtà, prima di affrontarne i problemi nella prassi; in secondo luogo perché le studentesse e gli studenti liceali sono destinati per la maggior parte a proseguire gli studi dopo il quinquennio superiore, beneficiando del bagaglio culturale che vi hanno accumulato: possiamo parlare di utilità del sapere anche in vista dell’acquisizione di altro sapere, oppure vogliamo davvero convincerci che è utile solamente ciò che conduce subito a realizzazioni concrete, tangibili, solide, manuali?


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