La trasmissione della conoscenza

La scuola è accusata di trasmissività: pochi però vanno oltre lo slogan per spiegano con esattezza dove stia la colpa; anzi, come sia possibile una simile accusa

Una delle cose che più mi colpiscono, da quando si parla della necessità di una nuova didattica, è il contrasto tra la sicumera di coloro che mettono sotto accusa la scuola «trasmissiva» e la modestia culturale dei loro argomenti [1]. 

Che cosa è mai la scuola trasmissiva? Corrisponde all’antico bisogno di raccogliere e conservare il significato delle esperienze che altri esseri umani hanno fatto prima di noi. È un’idea semplice, benché impegnativa. Si tratta di conoscere il vissuto degli individui e dei popoli del passato, anche attraverso lo studio delle loro conquiste in campo scientifico, tecnico, artistico e letterario, filosofico e religioso. Lo scopo implicito è quello di esercitare il pensiero critico sulla realtà attuale anche alla luce di quelle conoscenze. 

Non c’è alcuna vera comprensione senza conoscenza. Non c’è alcuna vera conoscenza – nemmeno di quelle realtà che diremmo recenti o nuovissime – senza la padronanza dei termini, dei concetti e delle idee che il passato ci ha consegnato per farne un uso libero. Non c’è vera libertà senza quel tipo di conoscenza perché, anche quando ci limitiamo a descrivere ciò che abbiamo dinanzi agli occhi, anche quando immaginiamo un futuro diverso dall’oggi, non possiamo che partire dai termini, dai concetti e dalle idee che ci hanno condotto sin qui. 

I padri desiderano trasmettere ai figli il senso della loro esperienza, vogliono che essi ne facciano tesoro per vivere un futuro il migliore possibile. Dunque insegnano loro ciò che hanno appreso, a proprie spese, raccontano di sé, di ciò che è stato loro raccontato dai padri e dai nonni. Non importa che i figli, presto o tardi, cerchino di ribellarsi ai genitori, di liberarsi di quelle presenze ingombranti e della loro memoria. Anzi; quella ribellione è esattamente il risultato di un’intuizione: vivere portando sulle spalle tutto quel passato, quell’enorme fardello di esperienze dei propri avi è pesante, è un’enorme responsabilità che viene da una visione di sé attraverso il tempo. 

Le generazioni più giovani sentono che hanno problemi nuovi da risolvere, e che quei problemi si sono configurati nel tempo. Per questo – presto o tardi – avvertono di non poter gettare via il patrimonio di esperienze che è giunto loro dal passato senza pagarne il duro scotto: si tratta di scegliere cosa conservare, e cosa gettare via, cosa migliorare e cosa valorizzare. Solo i superbi negano d’essere stati creati, credono d’essere il principio e la fine della propria storia. 

Una scuola che non trasmette è una scuola che prepara una società disponibile ad accettare tutto, a far passare qualsiasi cosa, giacché senza storia non c’è nulla cui sottrarsi, nulla da preferire, nulla cui ribellarsi: senza consapevolezza di una continuità o di una discontinuità [2] rispetto al passato non c’è nulla a cui appellarsi a riprova delle proprie scelte, nulla che sia peggio e nulla che sia meglio. A tal proposito sento di poter far mie le parole di Edmund Burke (1729-1797), che scriveva:

Ci guardiamo bene dal permettere agli esseri umani di vivere e agire sulla sola scorta dei lumi della propria individuale razionalità, perché sospettiamo che tale scorta sia assai limitata in ogni individuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio generale di esperienza accumulato dai popoli nel corso di lunghi secoli [3].

Nell’idea di una scuola non trasmissiva, oppure – dato lo stato dei fatti – anche solo meno trasmissiva – è annidato il solito, vecchio, ridicolo eppur pericolosissimo credo secondo cui tutto ciò che ci parla dal passato si può rifare da soli senza appoggiarsi a maestri ed autorità; anzi, lo si può fare meglio di come è stato fatto fino ad ora. 

Non sto affatto dicendo che le cose che il passato ci affida non possano essere discusse, migliorate e persino rifiutate e superate; sto dicendo che, secondo molti novatori, il progresso individuale e collettivo dovrebbe essere costruito liberandosene poco a poco, quasi si trattasse di una zavorra: non c’è molto altro nella visione di chi porta al parossismo il discorso sulle metodologie didattiche e non spende una parola sui contenuti di studio. Secondo questi novatori si tratterebbe di fare esperienza diretta della realtà per affermare la propria autonomia e sviluppare la propria intelligenza; si tratterebbe di conquistare con le proprie forze e per intero le idee in nome delle quali spendersi. Secondo queste persone l’uomo nuovo non potrà fiorire fintantoché vedrà le cose attraverso le vecchie lenti, cioè continuerà ad affidarsi al magistero di chi ci ha preceduto. 

Dietro tutto ciò c’è una grande trascuratezza logica. Sfugge l’idea che le conoscenze che giungono a noi dal passato sono a tutti gli effetti una parte della realtà di cui fare esperienza; anzi, esse sono proprio la parte della realtà sulla quale chi desidera sviluppare intelligenza ed autonomia critica può applicarsi con maggior profitto personale e collettivo.

Note

[1] Un campionario di questa diffusissima mentalità si trova al sito <http://www.democraziaoggi.it/?p=4378>, dove è pubblicizzata un’iniziativa del CIDI, un’importante associazione nazionale degli insegnanti di ogni ordine e grado. Credo che uno degli esponenti più illustri di questo modo di pensare sia stato Luigi Berlinguer, che fu anche ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000.
[2] La consapevolezza della propria discontinuità rispetto al passato non equivale affatto alla trascuratezza del proprio passato.
[3] In Riflessioni sulla Rivoluzione francese, trad. it., in Scritti politici, Utet, Torino, 1963, pag. 257.

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