Contro la didattica-spettacolo: elogio della lezione frontale

Presentiamo un significativo contributo di un nostro lettore e studente a proposito di una pratica didattica antica, e oggi sotto attacco.


Sono uno studente, e lo dico fin da subito per sgombrare il campo da equivoci: non parlo da cattedra, non rimpiango tempi che non ho vissuto, né ho nostalgia dell’università che fu. Eppure, in controtendenza rispetto a ciò che va di moda oggi, adoro la lezione frontale. Non perché sia nostalgico, ma perché ne riconosco il valore formativo profondo. Quando è fatta bene, una lezione frontale è un momento raro: qualcuno che sa davvero, che ha studiato, che ha capito, prende la parola e ti accompagna nel suo mondo. Non c’è dispersione, non ci sono distrazioni: solo un sapere che si fa voce, e una mente che si apre per accoglierlo. In un’epoca ossessionata dall’interattività forzata, trovo che saper ascoltare – e volerlo fare – sia un atto quasi rivoluzionario.

Negli ultimi anni, la lezione frontale è diventata il bersaglio preferito delle nuove pedagogie. Bollata come arcaica, passiva, noiosa, autoritaria, è stata progressivamente messa da parte in favore di metodi alternativi: flipped classroom, cooperative learning, peer tutoring, project-based learning, gamification e altri ancora. A parole, tutto è più dinamico, partecipativo, coinvolgente. Ma siamo davvero certi che questo progresso metodologico corrisponda a un effettivo miglioramento dell’apprendimento?

Il rischio, sempre più evidente, è che in nome dell’innovazione si stia rinnegando, con leggerezza, una delle pratiche più antiche e più efficaci dell’insegnamento: la lezione. Una lezione frontale ben costruita, tenuta da un docente competente, non è affatto una trasmissione passiva di contenuti. È, al contrario, un’arte complessa, una forma di pensiero espresso ad alta voce, capace di strutturare il sapere e di offrire agli studenti una visione d’insieme, un orientamento nel caos informativo che li circonda.

Spesso chi critica la lezione frontale ne ha in mente una caricatura: un docente che legge svogliatamente le slide, mentre gli studenti sbadigliano o fingono di prendere appunti. Ma quella non è una lezione frontale: è una lezione malfatta. Una buona lezione, invece, richiede competenza, chiarezza, capacità espressiva, senso del ritmo e, soprattutto, una profonda comprensione della materia. Insegna non solo i contenuti, ma anche come si pensa, come si organizza un discorso, come si argomenta.

Non sempre “fare” equivale a “imparare”. In nome dell’interattività si moltiplicano le attività di gruppo, le simulazioni, i brainstorming, i laboratori. Ma spesso, in questo proliferare di dinamiche, si perde il senso profondo dello studio. Si fa tanto, si produce tanto, ma si riflette poco. L’apprendimento diventa superficie. La lezione frontale, invece, è uno spazio di profondità: non chiede una reazione immediata, ma una concentrazione prolungata. È un tempo in cui lo studente è chiamato ad ascoltare, a comprendere, a interiorizzare.

C’è poi una questione culturale che oggi sembra diventata tabù: il sapere ha bisogno di gerarchia. Imparare significa riconoscere che qualcun altro, in quel momento, ne sa più di noi. La lezione frontale è anche questo: un atto in cui il docente esercita, con responsabilità, il proprio ruolo di guida. In un contesto sociale che tende ad appiattire ogni differenza e a diffidare di ogni forma di autorità, ricordare questo è forse scomodo, ma necessario.

Naturalmente non si tratta di escludere ogni forma di partecipazione attiva. Non è questione di scegliere tra la lezione frontale e le metodologie alternative. Serve, piuttosto, un equilibrio intelligente. La lezione frontale dà struttura, orienta, apre il discorso. Le attività possono seguire, approfondire, problematizzare. Ma togliere la lezione significa togliere la bussola. E chi sa tenere una lezione efficace, chi sa parlare con chiarezza e passione, resta oggi una figura insostituibile.

La verità è che la lezione frontale non è affatto superata: è semplicemente troppo difficile per chi non sa insegnare. Richiede conoscenza, tempo, studio, presenza. E soprattutto, richiede una cosa che nessuna piattaforma potrà mai sostituire: l’umano che trasmette all’umano. In un mondo che parla ininterrottamente, imparare ad ascoltare è un gesto controcorrente. E la lezione frontale, oggi più che mai, è uno dei pochi luoghi dove questo gesto può ancora compiersi.


di Salvatore Paolo Caligaris
Fondatore di Hub Letteratura
“Ubi studium ibi lux”

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