Il formaggio interdisciplinare

La cultura dei “nuovisti” apre spesso altre finestre sulla realtà: ma fuori non c’è nulla

Negli ultimi anni s’è cominciato con coraggio a parlare di superamento della “separazione tra le discipline” chiamando in causa un’interdisciplinarità che ci restituisca – finalmente – il valore dell’atto conoscitivo, il quale è sempre complessivo. Ci vuole coraggio, in effetti, ad immaginare di conoscere la realtà senza adottare alcun punto di vista particolare: direi che ci vuole una spinta vigorosa. L’ostacolo di primo acchito pare enorme; ma la volontà può tutto. Che fessi i filosofi e i teologi che lavorarono per secoli attorno all’idea secondo cui “distinguere non è separare” e “nessuno può conoscere veramente l’unità se non conosce anche la distinzione”! Proprio per questo dobbiamo guardare al “nuovo” con entusiasmo: cioè per liberarci da queste pastoie concettuali e raggiungere finalmente la conoscenza assoluta delle cose senza soffocarne l’essenza con il cappio delle diverse prospettive disciplinari, tipiche strozzature d’una scuola retrograda, fondata su nozioni atte solo a segregare la verità e ad assegnare gli incarichi ai docenti in base a ciò che hanno studiato. La musica adesso cambia.

Facciamo un esempio: lo studio interdisciplinare del formaggio.

Potremo partire dal fatto storico in sé? Forse, ma senza vanamente risalire fino ai Sumeri che si nutrivano dei misteriosi formaggi sumerici; e pure senza soffermarci sulla crisi casearia medievale, o sul verminoso formaggio cinquecentesco di Ginzburg. No, dai. Sarebbe già un indulgere cinicamente allo specialismo storico. Diremo però che il formaggio c’era, e probabilmente ci sarà ancora.

Sul piano geografico non ci addentreremo trasmissivamente nel rapporto tra clima, vegetazione, pascolo ed allevamento, al fine di cogliere il legame tra ambiente ed alimentazione umana: troppe situazioni geografiche per non cadere nella geografia stessa. Non sia mai. Diremo però che il formaggio varia.

Per quel che concerne la matematica bandiremo ogni soffocante cenno al calcolo dei rapporti tra la quantità di latte e la pasta di formaggio ricavatane; o alla perdita percentuale di peso delle forme durante la stagionatura: questo sarebbe addirittura un cedimento alla fisica. Non deve accadere. Diremo però che il formaggio pesa; e che -a volte- pesa parecchio.

In ordine alla chimica, poi, staremo alla larga dai tipi di caglio (sempre disgustosi), dalle reazioni e dalle temperature di coagulo, poiché il penetrante sguardo di questa disciplina rompe l’armonioso insieme che chiamiamo ingenuamente “formaggio”, il quale è l’unica cosa che conta nella didattica d’avanguardia.

In quanto alla letteratura eviteremo come la peste le delicate voglie di Leopardi, amante delle forme di formaggio della Marca, o la passione creativa di Gadda per il croconsuelo. Siamo per l’interdisciplinarità. Perciò diremo piuttosto che il formaggio ha una sua poesia…

Chiunque voglia davvero cogliere l’unità creativa, e quasi metafisica, del concetto di formaggio (senza scadere nella filosofia, però) non può affatto tollerare consimili cedimenti, che paiono dovuti alla vecchia noiosa tendenza a sezionare, approfondire, scavare nel formaggio su tutti i lati: quasi la scuola fosse un luogo di incursioni e razzie.

Siamo in un’era nuova, e gli obiettivi scolastici non possono che essere “nuovi” (a ben guardare nemmeno poi così nuovi). Dunque impareremo finalmente a guardare al formaggio come si guarda attraverso l’aleph di Borges: vedremo comparire il mondo intero lì, nell’unità indistinta del formaggio trascendentale, ormai assurto a simbolo d’una vera rivoluzione culturale.

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