Innovare ad ogni costo? Forse sarebbe meglio guardare ai risultati.
Il fallimento delle teorie pedagogiche che si è cercato di imporre alla scuola italiana è sotto gli occhi di tutti. A pagare le prime conseguenze di questa superficiale scuola “del benessere” sono proprio i giovani, mandati allo sbaraglio nella società e nella vita.

Quella che fino a qualche anno fa veniva definita emergenza educativa, si è aggravata oggi in una vera e propria tragedia della formazione delle nuove generazioni, le cui cause e concause meriterebbero un discorso ampio e approfondito. Fra queste, tuttavia, una sulla quale vorremmo soffermarci, non priva di effetti assai rilevanti e deleteri, è l’influenza esercitata sulla prassi didattica da teorie pedagogiche disparate ma tutte aventi tre denominatori comuni:
1. la ricerca della innovazione ad ogni costo;
2. la cosiddetta inclusione (che non si comprende bene che cosa effettivamente significhi sul piano educativo);
3. soprattutto, il rifiuto della trasmissione della conoscenza, considerata una funzione obsoleta e ormai anodina del processo educativo.
La diffusione di queste concezioni è andata di pari passo con lo scadimento dei livelli di apprendimento delle nuove generazioni, fino a un vero e proprio semianalfabetismo: incapacità di comprendere testi scritti di media o bassa difficoltà, ignoranza spazio-temporale di ciò che avviene nel mondo (effetto della mancanza di conoscenze storiche e geografiche), conseguente impossibilità di capire il presente, nel quale questi giovani annaspano senza punti di riferimento e alla mercé di un’invasiva rete mediatica altamente entropica e spesso deviante.
Nascono spontanei alcuni paragoni, dettati dalla semplice esperienza personale. Perché mio nonno, che frequentò solamente i primi due anni di scuola elementare a fine ’800, quindi ancora nell’ambito legislativo della legge Coppino, prima delle riforme giolittiane, era comunque in grado di scrivere un testo senza infarcirlo di errori grammaticali grossolani? Perché sua figlia, che frequentò il ciclo elementare di 5 anni negli anni ’30, sapeva scrivere non solo senza errori ma in modo appropriato ed espressivo? Certo, forse anche per aver coltivato in seguito letture personali e per aver recepito con il tempo altre informazioni: ma bisogna ammettere che i fondamenti conoscitivi, cioè i pilastri di conoscenze e capacità elementari, cioè i primi basilari elementi del sapere (leggere, scrivere, far di conto), erano stati assimilati egregiamente a scuola.
Non rimpiangiamo la scuola autoritaria e chiusa di un secolo fa. Vorremmo però che i tanti tromboni dell’innovazione, dello spontaneismo creativo del fanciullo, della liberazione dalla trasmissione passiva dei saperi (che passiva non è mai, in verità), della condanna della “lezione frontale” ritenuta obsoleta e inutile, anzi addirittura dannosa perché emblematica di una prassi d’apprendimento puramente mnemonica, riflettessero su dati storici di fatto e sulla situazione in cui si trovano oggi i giovani che escono da ben 13 anni di ciclo scolastico in condizioni di preoccupante immaturità culturale, psicologica ed emotiva.
È ormai dimostrata l’inefficacia dell’assunto pedagogico-didattico di insistere sullo sviluppo della creatività libera e dello spontaneo esercizio critico dei discenti, se gli stessi non possiedono saldi elementi di una matrice culturale che li metta in grado di esercitare effettivamente le loro capacità cognitive e critiche. Su che cosa può esercitare la propria riflessione chi non possiede conoscenze radicate e meditate, chi non è in grado di orientarsi nelle vicende storiche e nella consapevolezza geografica, o addirittura non possiede gli strumenti linguistici per esprimere i propri sentimenti e passioni? Il risultato sarà solo superficialità di opinioni, ripetizione di luoghi comuni e conformistici, pressapochismo; alla lunga, indifferenza e noia.
Ci pensino, i sostenitori di uno studio innovativo che nei fatti è banale e facilitato, che non richiede sacrificio, precisione, approfondimento e ampliamento sotto la guida dei docenti. Ci pensino, i detrattori di una valutazione rigorosa, senza la quale non esiste apprendimento perché viene a mancare la consapevolezza dei propri errori e la facoltà di correggerli. L’incapacità di molti giovani di sostenere sconfitte, incapacità che scatena reazioni parossistiche, deriva anche da una mancata abitudine a uno studio serio, assimilato, mnemonicamente fissato, criticamente valutato attraverso successivi passi e aggiustamenti, talvolta anche dolorosi perché inducono a una revisione di metodi e di processi mentali. Privare i giovani di qualunque occasione di ripensamento, qualunque sacrificio e temporanea umiliazione, facendoli vivere in un illusorio paese dei balocchi e assimilando la scuola a un videogioco in cui non esiste fatica, rimprovero, correzione, significa mandarli allo sbaraglio in una società spietata e competitiva, nella quale dovranno affrontare difficoltà che non saranno in grado di superare.
Lo studio semplificato, liberato dal dovere, dallo sforzo mnemonico e dalla assimilazione personale, paragonato a un ludico esercizio disimpegnato, non conduce altro che all’ignoranza effettiva, al vuoto cognitivo, al disorientamento e al passivo conformismo.
Lo sapeva anche il Poeta: Non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso. (Par.V, 41-42).
Perfettamente d’accordo con questa analisi lucida e ficcante. Mi riallaccerei alla constatazione che li si sta mandando “allo sbaraglio” in un mondo duro. Duro non solo internamente alla nostra società ma anche esternamente. Tutti questi coltelli in tasca all’uscita di scuola stanno a testimoniare l’incapacità di graduare la reazione a eventuali furti e prepotenze. Il passaggio alla pistola presa dal cassetto di papà potrebbe essere immediato. Non deve succedere. Ma aggiungiamo anche un altro elemento. Fra i gruppi giovanili, quelli extracomunitari sembrano essere spesso più aggressivi e determinati, legati come sono a culture molto meno “inclusive” della nostra. Irrobustire i nostri giovani -confusi fra una realtà spesso “rapinosa” e le prediche buoniste di un’insegnante mammista- restituendo loro l’orgoglio di chi si guadagna i risultati e insieme la personalità di chi non si vergogna della propria Cultura.