La pedagogia non può salvare il mondo
La pedagogia torna e ritorna all’attacco pretendendo di rifare l’insegnante, insieme all’uomo nuovo. Le manca di capire che l’essere umano non si programma.

Ci risiamo.
Nelle mille discussioni in rete i rancorosi guerrieri del pedagogismo tornano all’attacco: denunciano i propri traumi e quelli dei figli (pianti, urla, bronci, scoraggiamenti, depressioni, rifiuti, allucinazioni, mutismi ed alienazioni: manco fossimo sul fronte ucraino, nella striscia di Gaza o sotto i bombardamenti di Napoli nel 1943), ricordano le pessime maniere di qualche loro insegnante, che, con modo di fare inadeguato, scioccante o pazzo, giunse a mettere a repentaglio l’intero percorso scolastico, il senso d’autostima e la sicurezza di quegli scolari acerbi e delicati. Sono ricordi pieni di verità. Chi non ha ricordi analoghi, anche se in piccolo?
È da queste esperienze personali che si leva spesso l’esortazione appassionata (e quasi sempre sorda a ogni replica) dei furiosi incursori del nuovismo scolastico: si tratterebbe d’aprire le porte delle scuole alle fantasmagorìe pedagogiche, che finalmente raddrizzino la gobba a quegli insegnanti indegni, ora seminatori di traumi, ora di sciattume didattico. “Senza le giuste conoscenze della psiche infantile, senza i metodi e le tecniche, senza padronanza delle neuroscienze (sic), senza un uso pensato della tecnologia essi continueranno a far danni…”
In questo invito ad adeguare ed aprire la scuola alla contemporaneità c’è un intero universo di ingenuità, di ideologia, di utopismo. C’è la vecchia e mai morta speranza di fare l’uomo nuovo per una società nuova; di trovare – come per magia – la formula della felicità umana. Si tratta di una speranza vana ma pericolosissima, poiché richiede enormi sacrifici oggi in nome di un paradiso terrestre che però non è possibile realizzare: né domani, né mai. “Oibò, e perché mai?” mi si dirà. La risposta non è difficile da formulare qui, ma è difficile da comprendere se prima non s’abbandona il pensiero bambino secondo il quale il male può essere spazzato via dall’esistenza umana con un’apposita serie di procedure; in particolare con un’educazione realizzata in modo scientifico, che sani le ferite individuali e rompa finalmente il ciclo del dolore, del trauma, dell’intimo senso d’inadeguatezza che passa da una generazione all’altra attraverso la scuola.
La mia risposta è racchiusa in una manciata di asserzioni:
a) molte teorie pedagogiche sono semplicemente false, e non funzionano con nessuno perché sono solo il parto dell’ideologia; altre teorie pedagogiche sono vaghe ed astratte dalla realtà. Inoltre ogni teoria pedagogica poggia su sistemi valoriali che nessuno ha il diritto di dare per scontati imponendoli agli insegnanti e – soprattutto – ai loro allievi;
b) gli educandi sono tutti diversi tra loro, e richiedono attenzioni differenti. Per dar loro tali attenzioni non esistono formulari, protocolli, tecniche e regole pedagogiche da applicare, se non a scapito della loro individualità (allo stesso modo non esistono formulari, tecniche e regole predefinite per creare capolavori artistici);
c) una pedagogia sana, che s’occupi davvero dell’educazione delle persone anziché di rifare il mondo, non può che aspirare a dissolversi nell’arte d’ogni singolo pedagogo, educatore o insegnante: esiste certamente un modo migliore di educare, ma lo si definisce solo caso per caso;
d) la pedagogia non esiste come disciplina unitaria codificata e trasmissibile, proprio come non è trasmissibile la saggezza, la quale è sempre fondata sull’esperienza di ciascuno, oltreché radicata in una configurazione di vizi e virtù profondamente variabile;
e) la pedagogia non esiste come scienza poiché non sa e non può fornire modelli comportamentali replicabili con successo;
f) educare un fanciullo non è qualcosa che si possa insegnare a chi non lo sappia fare: soprattutto perché ogni essere umano, persino il docente più preparato e colto, resta un essere sociale irriducibile alle cose apprese per via razionale. Egli è dominato dai modi relazionali e sociali appresi in tenerissima età, che ne hanno plasmato il carattere.
Da tutto ciò consegue che tu puoi spiegare quante volte vuoi lo sviluppo cognitivo secondo Piaget o i rudimenti delle neuro-scienze ad un insegnante rude, spiccio, sciatto o inetto; puoi spiegargli e ripetergli i modi corretti della comunicazione accogliente, costruttiva, efficace; puoi spiegargli quante volte vuoi che cos’è l’empatia; puoi spiegargli e ripetergli l’uso della prossemica, e le tecniche retoriche per risultare interessante, coinvolgente di fronte all’uditorio; insomma, puoi spiegargli quanto di meglio si può conoscere per fare bene a scuola, per far bene lezione ed intrattenere rapporti armoniosi e formativi cogli allievi. Ma la verità è che perlopiù non andrai a bersaglio.
Tutte le conoscenze pedagogiche, pseudo-pedagogiche o parapedagogiche infatti presentano limiti gravi, che forse è bene che io fissi e sviluppi:
1) nella misura in cui queste esse riguardano, in senso lato, il funzionamento della psiche del discente (il che le riconduce a discipline diverse dalla pedagogia, anche se il pedagogista è sempre alla ricerca di teorie extra-pedagogiche su cui poggiare le proprie rivendicazioni ideologiche al fine di spacciarsi per scienziato), queste conoscenze teoriche, frammentarie ed incerte, possono aiutare l’insegnante a comprendere intellettualmente, a interpretare razionalmente ciò che succede negli altri esseri umani; nondimeno insinuano in lui l’irrazionale aspettativa che quelle teorie abbiano capacità predittive, e forniscano risposte concrete a tutti i suoi problemi in classe. Eppure queste previsioni, queste risposte didattiche non arrivano quasi mai. Accade per una ragione semplice: la complessità dell’essere umano è sterminata, la sua profondità è abissale e il quotidiano scolastico è una giungla di variabili ambientali. Quand’anche le risposte che l’insegnante attende arrivino davvero, esse non sono altro che ri-proposte commerciabili (oggi in salsa americana) delle più rodate soluzioni pratiche che gli insegnanti padroneggiano da secoli grazie alla trasmissione intergenerazionale del mestiere, il quale passa anche attraverso la loro importante esperienza come allievi prima di diventare insegnanti. Si tratta di risposte partorite dall’esperienza, passibili di tutti quegli accomodamenti che solo il bravo insegnante può e deve apportare;
2) tutte le conoscenze intellettuali e strumentali legate alla relazione interpersonale che puoi fornire all’insegnante tendono a sparire nel turbinoso abisso del suo carattere e della sua psicologia, che – in ordine ad alcuni meccanismi – si è configurata nei primissimi anni di vita, soprattutto nelle relazioni parentali in ambiente domestico, e non può essere ri-programmata a piacimento. Le conoscenze intellettuali dell’insegnante formato, per farla breve, non si traducono automaticamente in modi d’essere, non agiscono sulle sue capacità relazionali, sulla sua emotività e sensibilità; si perdono invece nell’oceano delle abitudini, degli schemi di condotta e degli stili comportamentali modellati nel corso della sua vita. L’indole di quell’insegnante è fatta anche della sua cultura, non c’è dubbio; ma, se è vero che l’indole può conferire qualche forma alla cultura, molto più difficilmente la cultura può riformare l’indole.
Dobbiamo allora rassegnarci: gli insegnanti sono esseri umani, non sono macchine da programmare sulla base delle perniciose credenze promosse dalla pedagogia. Il meglio che possiamo pretendere è che essi siano preparati nella propria disciplina, e che continuino a studiarla nel corso degli anni; mentre è perfettamente inutile sperare di cambiare il loro modo d’essere, agendo su di loro dall’esterno, attraverso la formazione. Gli insegnanti vivono ogni relazione mettendo in campo qualcosa di unico – nel bene e nel male – ed è a partire dalla propria personalità che riescono (nella grande maggioranza dei casi) ad attivare l’apprendimento dei propri allievi.
Non ci si scappa.
Certo, può esserci chi davvero si riveli inidoneo a svolgere il lavoro di insegnante, come in ogni campo. Ma deve essere chiaro che ogni fatua aspirazione ad omogeneizzare, serializzare e bonificare la natura umana (quella dei docenti come quella dei discenti) attraverso le pratiche, i discorsi e le teorie dettate dalla pedagogia non potrà che condurre alla morte della relazione autentica: gli allievi sono sempre i primi ad avvertire il puzzo di finzione e di ipocrisia nel modo di porsi di chi hanno davanti.
Sagredo, in questo suo analitico saggio, è veramente un signore nel non voler pensare male e nel tenere la parola “interessi” al di fuori di questa sua trattazione. Di questa sua approfondita -e soprattutto concreta- disamina vorrei solamente sottolineare il riferimento alla inconsapevole -ma progressiva- vocazione totalitaria espressa dalla Pedagogia italiana e Europea degli ultimi 70 anni circa. Che l’ha portata a contaminarsi ampiamente e non a caso con il *Follemente corretto* e con diversi aspetti dell’ideologia Woke. Finché i contributi pedagogici erano lì, a disposizione del docente, interessato o meno a servirsene, potevano rappresentare un giacimento al quale attingere liberamente e, assai meglio ancora, ecletticamente. Una volta usciti però da una scarsa rilevanza fuori Facoltà ed entrati -come sottolinea Massimo Bontempelli- nella “stanza dei bottoni”, i Pedagogisti hanno rivelato una inquietante tendenza al *controllo* e all’imposizione di Formazioni, una irresistibile volontà di colonizzare la Scuola. Scusate la lunghezza. Conclusione? La conclusione è che sono riusciti in una trentina d’anni a devastare la nostra Scuola ma ancora non gli basta.