La virtù della correzione
L’atto di correggere è vissuto da troppe persone come una violenza sugli allievi. Con quali risultati?
Spesso, durante i compiti in classe, mi piace camminare tra i banchi, sotto i neon che ronzano senza requie. A volte m’accorgo di aggiungere disturbo al disturbo con lo scricchiolio delle scarpe di cuoio; dunque rallento, m’irrigidisco. Osservo i ragazzi e le ragazze nel loro impenetrabile dialogo con il foglio: stanno a ciuffo chino, leggono e rileggono, talvolta fracassano la penna tra i denti, tormentano un inutile ammennicolo uscito dall’astuccio, come per spremerne la vita o la buona sorte; a volte si girano di scatto per cogliere qualche indizio sul mio volto, o sperando di avere una dritta. Col trascorrere degli anni sono diventato sentimentale e, se posso, li indirizzo senza eccedere, li rassicuro, li invito a darci dentro: sono contento quando fanno bene…
Mi allontano di un paio di passi e, socchiudendo gli occhi, cerco di vedere l’insieme: ma sì, ho fiducia in loro. Ho fiducia nelle giovani generazioni. Ricordo abbastanza bene com’ero alla loro età, e non ero affatto una persona migliore. Poi riapro gli occhi, aguzzo lo sguardo, torno sui particolari… e qui comincia il mio rammarico. Quasi tutti impugnano la penna in modo terribile: chi producendosi in uno sforzo che rende le dita paonazze, chi afferrando la cannuccia troppo in alto o troppo in basso. Alcuni di loro, anziché stringerla tra i polpastrelli, la strozzano tra le falangi e le falangette; altri sembrano voler ferire la carta con un punteruolo, mosso su e giù perpendicolarmente al piano di lavoro; solo un paio scrivono con scioltezza, senza sforzo particolare: per la maggior parte dei miei allievi la scrittura è un atto dal quale traspaiono tensione muscolare e impaccio motorio; una fatica fisica che sarebbe stata loro risparmiata per tutta la vita, se solo avessero ricevuto un’impostazione corretta, tanti anni fa, nei primi giorni di scuola… una fatica fisica di cui le impossibili calligrafie, poi, non sono che uno dei segni tangibili.
A questo punto i miei pensieri si fanno più mesti: perché per avere un’impostazione corretta bisogna che sia praticata la “correzione”, che è stata una virtù di qualche riguardo, per chi se la ricordi ancora. Ecco, è qui il difficile. La correzione adesso è fuori moda, o apertamente osteggiata. Oggi le parole d’ordine sono altre: “il bambino deve esprimersi”, “siamo a scuola, non in una sala di tortura”, “non puoi forzarlo, farlo soffrire”, “ognuno ha il proprio stile”, “i bambini non sono soldatini, non sono fatti con lo stampino”, “siamo tutti diversi”. Le conosco bene queste frasi, e mi basta pensarle per visualizzarne gli effetti deleteri. Chiunque abbia praticato qualche sport sa quali siano le prestazioni degli allievi la cui tecnica sia male impostata, e quanto debbano faticare in più: anche per ottenere risultati modesti.
Ora il mio pensiero corre avanti; segue l’idea che l’impugnatura della penna sia solo la punta dell’iceberg, di cui a volte mi tocca saggiare la durezza per intero. Forse pure sul resto la mancata correzione avrà prodotto risultati analoghi? Mah. Ormai, che cosa fare? Finiamo questo compito, su. La sensazione però è di un immane spreco umano.