Ripetere fino alla noia serve? Sì.

In troppi credono di poter sempre evitare agli allievi la ripetizione e la memorizzazione in vista della automatizzazione di processi mentali di base. Si può fare, certo: ma a danno dei processi mentali di ordine superiore.


Uno degli argomenti-spauracchio adoperati dai cantori della pedagogia attiva, della scuola ammodernata, super-inclusiva ed attenta ai mille bisogni emotivi degli allievi è la noia che deriva dall’applicazione di alcuni metodi didattici tradizionali. Tale noia – secondo i cantori del puerocentrismo – sarebbe letale perché capace di deprimere la motivazione degli allievi.

Lo psicologo cognitivista Daniel T. Willingham (n. 1961; già università di Harvard, ora università della Virginia) si è occupato lungamente dei rapporti tra gli apprendimenti e la memoria, fornendo risposte degne di nota a tutti coloro che pensano di potere evitare la noia agli allievi senza farne loro pagare i costi rilevanti. Leggiamo insieme che cosa scrive Willingham in Perché agli studenti non piace la scuola? e più precisamente nel capitolo intitolato “Vale la pena esercitarsi fino alla noia?”. Le sue parole sembrano porre fine a tutte le possibili discussioni sull’argomento, almeno se condotte in buona fede.

Domanda: in America esercitarsi fino alla noia è chiamato drill and kill (allena e ammazza, ndr). L’uso del termine drill, mutuato dalle esercitazioni militari al posto di practice, pratica, termine più neutrale, evoca qualcosa di poco ragionato e spiacevole, che viene eseguito in nome della disciplina piuttosto che per il profitto dello studente. Per questo l’espressione drill and kill viene usata per criticare alcune pratiche didattiche: l’insegnante fa esercitare gli studenti fino alla noia, il che uccide la loro spontanea motivazione ad apprendere. Sul fronte opposto ci sono i tradizionalisti dell’istruzione i quali sostengono che gli studenti devono esercitarsi per apprendere essenziali conoscenze di base, ad esempio nozioni matematiche come 5 + 7 = 12. Pochi insegnanti sosterrebbero che l’esercitarsi diverta i loro studenti e potenzi la loro motivazione; quindi potremmo chiederci: la potenziale perdita di motivazione è un prezzo che vale la pena pagare per ottenere un beneficio cognitivo?

Risposta: il collo di bottiglia nel nostro sistema cognitivo è la capacità di processare simultaneamente diverse idee a mente. Ad esempio, è facile molti-plicare 19 x 6, ma quasi impossibile moltiplicare 184.930 x 34.004. I processi sono gli stessi, ma in quest’ultimo caso andiamo in crisi nel tentativo di tenere a mente i diversi risultati parziali. La mente ha alcuni trucchi per aggirare questo problema e uno dei più efficaci è la pratica perché riduce la quantità di “spazio” richiesto dal ragionamento. Il principio cognitivo che guida questo capitolo è:

È praticamente impossibile divenire abili in una qualunque attività cognitivamente complessa senza esercitarsi a lungo.

Non si può diventare un buon giocatore di calcio se ci si ferma al palleggio, concentrandosi esclusivamente su come colpire la palla, quale parte del piede usare e così via. Processi di basso livello come questi devono diventare automatici, lasciando spazio ad aspetti di alto livello, come la strategia di gioco. Allo stesso modo, non si può diventare bravi in algebra senza conoscere a memoria le operazioni di base della matematica. Gli studenti devono esercitarsi su alcune cose; ma non tutti i contenuti debbono essere praticati. In questo capitolo analizziamo i presupposti che rendono la pratica cosi importante, discutiamo di come valutare se un contenuto meriti esercizio o meno e come far esercitare gli studenti in modo che trovino questa attività utile e interessante.

Perché dovremmo esercitarci? Una ragione consiste nell’ottenere un livello minimo di competenza. Un bambino si esercita ad allacciarsi le scarpe con l’aiuto di un genitore o di un insegnante finché non riesce a farlo in modo affidabile senza supervisione. Ci esercitiamo anche in compiti che sappiamo svolgere, ma che vogliamo migliorare. Un tennista professionista sa battere un servizio nel campo dell’avversario, ma comunque fa pratica per migliorare la velocità e la direzione della palla. In un contesto educativo, entrambe le motivazioni, raggiungere la padronanza o migliorare le abilità, sembrano sensate. Gli studenti possono praticare le divisioni a due cifre fino a quando non padroneggino il processo, cioè finché non riescano a risolvere in modo affidabile quelle divisioni. Altre abilità, come ad esempio scrivere un saggio argomentativo, potrebbero essere svolte adeguatamente, ma potrebbe essere sensato chiedere agli studenti di continuare a praticare queste attività nel tentativo di affinarle e migliorarle.

Queste due ragioni che portano a sostenere l’esercizio, per acquisire nuove competenze e migliorare quelle già in possesso, sono evidenti e non ci sono molte controversie a riguardo. Meno ovvi sono i motivi per esercitare abilità che si padroneggiano bene e per le quali sembra che esercitarsi non produca miglioramenti. Per quanto strano possa sembrare, questo tipo di pratica è essenziale per la scuola. Offre tre importanti vantaggi: rinforza le competenze di base necessarie per l’apprendimento di competenze più avanzate, aiuta a ricordare quanto appreso e favorisce il transfer.

Per capire perché la pratica è così importante per il progresso degli studenti, riproponiamo due considerazioni su come funziona il pensiero.

[…] Il pensiero combina in modi nuovi le informazioni che possono essere tratte dall’ambiente o dalla memoria a lungo termine o da entrambi. Ad esempio, quando si sta cercando di rispondere a una domanda come «Cosa hanno in comune un passaverdura e un colabrodo?», nella memoria di lavoro avviene l’analisi delle caratteristiche di ciascun oggetto, mentre si cerca di trovare punti di confronto che sembrano rilevanti per rispondere alla domanda.

Una caratteristica critica della memoria di lavoro, tuttavia, è che ha uno spazio limitato. Se si cerca di elaborare troppe informazioni o di confrontarle in molti modi diversi, si perde traccia di ciò che si sta facendo. Supponiamo che la domanda sia: «Cosa hanno in comune un passaverdura, un colabrodo, un tostapane, un trinciapollo e un cavatappi?». Ci si può facilmente rendere conto che ci sono troppi elementi da confrontare simultaneamente. Mentre si sta pensando a cosa può collegare un trinciapollo a un cavatappi, abbiamo già dimenticato quali sono gli altri oggetti.

Questa mancanza di spazio nella memoria di lavoro è un collo di bottiglia della cognizione umana. Si possono immaginare molte funzionalità che potrebbero migliorare il nostro sistema cognitivo (memoria più accurata, attenzione più focalizzata, visione più acuta e così via), ma se un genio uscisse da una lampada e ci offrisse un modo per migliorare la mente, sarebbe bene chiedere maggiore spazio nella memoria di lavoro. Le persone con una maggiore capacità in questa funzione sono migliori pensatori. C’è una grande quantità di evidenze sperimentali a sostegno di questa asserzione e la maggior parte di queste segue una logica molto semplice: si prendono dei soggetti, se ne misura la loro capacità di memoria di lavoro, quindi si misura la loro capacità di ragionamento e si controlla se c’è correlazione fra di esse. Sebbene la memoria di lavoro non sia l’unico fattore che influenza questi processi (nel Capitolo 2, infatti, abbiamo sottolineato l’importanza delle conoscenze di base), sorprendentemente un buon punteggio in un test sulla memoria di lavoro è predittivo di un buon punteggio in un test sulle capacità di ragionamento e, viceversa, un punteggio scarso in un test sulla memoria di lavoro predice un punteggio basso in un test sulle capacità di ragionamento.

Poiché, di certo, non otterremo più capacità di memoria di lavoro grazie al genio della lampada e poiché questo capitolo riguarda la pratica, la conclusione sembra essere che gli studenti debbano fare esercizi per migliorare la loro memoria di lavoro. Purtroppo, tali esercizi non esistono. Per quanto ne sappiamo, la memoria di lavoro è più o meno fissa e la pratica non la migliora.

Ci sono, tuttavia, dei modi per aggirare questo limite. Nel Capitolo 2 abbiamo discusso a lungo su come mantenere più informazioni nella memoria di lavoro comprimendo le informazioni con un processo chiamato “chunking”, cioè trattando più cose separate come una singola unità. Invece di mantenere le lettere c, o, g, n, i, z, i, o, n ed e nella memoria di lavoro, le mettiamo insieme in una singola unità, la parola “cognizione”. Una parola intera oссuра circa la stessa quantità di spazio nella memoria di lavoro di una singola lettera. Ma aggregare le lettere in un’unica parola richiede la conoscenza della parola. Se le lettere fossero h, u, n, d, r, e e d, potremmo aggregarle in modo efficace se sapessimo che “hundred” è una parola inglese che significa “centinaio”. Ma se non avessimo la parola nella memoria a lungo termine, non potremmo dare un senso alle lettere nemmeno aggregandole.

Quindi, il primo modo per eludere le dimensioni limitate della memoria di lavoro è attraverso la conoscenza. C’è, poi, un secondo modo: possiamo rendere più efficienti i processi che elaborano le informazioni. In effetti, potremmo renderli così efficienti da essere virtualmente privi di costi. Pensiamo all’apprendimento del legare i lacci delle scarpe. Inizialmente richiede tutta la nostra attenzione e quindi assorbe tutta la memoria di lavoro, ma con la pratica possiamo legare i lacci automaticamente.

Ciò che occupava tutto lo spazio nella memoria di lavoro ora non occupa quasi nessuno spazio. Da adulti possiamo allacciarci le scarpe mentre intratteniamo una conversazione o anche mentre riflettiamo su problemi di matematica (nell’improbabile caso che ve ne sia la necessità).

Un altro esempio standard, come già detto, è guidare una macchina. Mentre si fanno le prime esperienze di guida, viene saturata tutta la capacità della memoria di lavoro. Processi come controllare gli specchietti, dosare la forza sull’acceleratore o sul freno per regolare la velocità, guardare il tachimetro o stimare la distanza di sicurezza richiedono l’intera capacità della memoria di lavoro. Da notare che non si sta cercando di tenere a mente molte cose contemporaneamente, come nel caso delle lettere, che potevano essere aggregate in parole conosciute per risparmiare spazio mentale. In questo esempio, invece, si richiede l’esecuzione di molte cose in rapida successione. Ovviamente, un autista esperto non ha problemi a fare tutte queste cose e può persino farne altre, come parlare con un passeggero. I processi mentali, quindi, possono essere automatizzati, richiedendo, cosi, poca o nessuna capacità di memoria di lavoro. Inoltre, tendono a essere piuttosto rapidi in quanto sembra che si sappia cosa fare senza nemmeno prendere decisioni consapevolmente. Un autista esperto getta uno sguardo allo specchietto e controlla il suo punto cieco prima di cambiare corsia, senza pensare tra sé e sé: «Va bene, sto cambiando corsia, quindi quello che devo fare è controllare gli specchietti e dare un’occhiata al punto cieco».

[…] nella maggior parte dei casi, i processi automatici aiutano piuttosto che ostacolare. Aiutano perché liberano memoria di lavoro, lasciando spazio per altri processi. Nel caso della lettura, questi altri processi sono, ad esempio, il pensare al significato delle parole. I lettori principianti sondano lentamente e con attenzione ogni lettera e poi combinano i suoni in parole; a quel punto non c’è più spazio nella memoria di lavoro per pensare al significato.

La stessa cosa può succedere anche a lettori esperti. Uno studente di scuola secondaria invitato a leggere una poesia ad alta voce di fronte alla classe può essere così concentrato a leggere senza sbagliare da non ricordare, alla fine della lettura, alcunché del contenuto.

Si possono fare considerazioni analoghe anche in ambito matematico. Quando gli studenti non hanno ancora raggiunto una certa competenza in ambito aritmetico, spesso risolvono i problemi usando strategie di calcolo. Ad esempio, risolvono 5 + 4 iniziando con 5 e contando altri quattro numeri per ottenere la risposta, 9. Questa strategia è sufficiente per risolvere semplici esercizi, ma si sa cosa accade quando gli esercizi diventano più complessi. Ad esempio, nel calcolo 97 + 89, la strategia di conteggio con le dita diventa molto meno efficace, perché questo calcolo richiede l’esecuzione di più processi nella memoria di lavoro. Si deve aggiunge il 7 al 9 contando con le dita e ottenendo 16, si deve ricordare di scrivere il 6, quindi aggiungere il 9 all’8 contando con le dita e ricordarsi di aggiungere il riporto di 1.
Il problema è molto più semplice se lo studente sa già che 7+9 = 16, perché arriva alla risposta corretta per quel primo passaggio a un costo molto più basso per la memoria di lavoro. Trovare un’informazione nella memoria a lungo termine per metterlo nella memoria di lavoro non richiede quasi nessuno sforzo.

Non c’è da stupirsi che gli studenti che hanno automatizzato i processi algebrici di base abbiano performance migliori nei vari processi di elaborazione matematica rispetto agli studenti che non hanno automatizzato questi processi. È stato inoltre dimostrato che la pratica aiuta gli studenti con difficoltà a rendere meglio nell’apprendimento di contenuti più complessi […]

Ricapitolando, abbiamo detto che la memoria di lavoro è il luogo del pensiero, dove si elaborano le idee e si trasformano in qualcosa di nuovo. Abbiamo anche visto che lo spazio nella memoria di lavoro è limitato e, se proviamo a mettervi troppe cose, ci si confonde e si perde il filo della soluzione di un problema o di un racconto che si cerca di seguire o dei fattori che si cerca di soppesare nel prendere una decisione. Le persone con maggiori capacità di memoria di lavoro riescono meglio in questi compiti a mente. Sebbene non possiamo ampliare la nostra memoria di lavoro, possiamo, come detto, liberare spazio nella memoria di lavoro in due modi: a) fare in modo che le informazioni da elaborare occupino meno spazio attraverso il chunking, che richiede conoscenze nella memoria a lungo termine, come abbiamo visto nel Capitolo 2; b) automatizzando i processi che utilizziamo per portare le informazioni nella memoria di lavoro o per elaborarle una volta richiamate.
Come possiamo automatizzare questi processi? La risposta è: con la pratica. Se ci sia un’alternativa, un trucco, una diversa soluzione per la quale sia possibile raccogliere i frutti dell’automatizzazione senza pagare il prezzo della ripetizione, né la scienza né la saggezza raccolta nelle culture del mondo lo hanno rivelato. Per quanto ne sappiamo, l’unico modo per automatizzare un processo mentale è ripeterlo più e più volte.

da Danniel T. Willigham, Perché agli studenti non piace la scuola?, UTET, Novara, 2018, pp. 121-130.

https://www.utetuniversita.it/catalogo/scienze-umane-e-sociali/perche-agli-studenti-non-piace-la-scuola-3635

Un commento

  1. Mi pare che questo scritto presenti robusti argomenti che vanno a segnalare la presenza di un nodo, un nocciolo non aggirabile, comune a qualsiasi tipo di relazione di insegnamento e apprendimento. Si può studiare musica, storia, matematica, si può cercare di imparare a giocare a tennis, ma in tutti i casi si devono automatizzare dei processi semplici, negli sport si parla spesso dei “fondamentali”, che una volta acquisiti con sicurezza fanno da base per ulteriori processi più complessi e significativi.
    E come si fa? Con i “vecchi e obsoleti metodi”, le lezioni frontali, le ripetizioni, le esercitazioni, che richiedono applicazione, impegno, fatica e sì a volte producono noia. Bene, sarà cura di un buon insegnante graduare, adattare, personalizzare, rendere per quanto possibile il lavoro piacevole ma bisogna chiarire che di “lavoro” si tratta. La pretesa che tutto si possa acquisire in uno spontaneo gioco sociale, senza alcuna fatica, senza nessuna frustrazione, senza acquisire il senso del limite e della realtà è falsa e dannosa. Si possono utilizzare strumenti nuovi, certo alcuni possono essere utilissimi, (e mi riferisco ovviamente a risorse e dispositivi informatici, AI, etc.) possono aiutare ma non possono e non devono aggirare, eliminare l’ostacolo.
    Per fare ciò occorre tempo, molto tempo, tempo IN AULA e se i ragazzi sono impegnati in progetti (a volte anche sensati ma non è questo il punto) nel PCTO, in attività varie ed eventuali il tempo quasi non c’è.
    Chi dice queste cose viene invariabilmente tacciato di essere antiquato, retrogrado (quando va bene). E’ vero le cose cambiano incessantemente, ma mi chiedo: proprio tutte tutte? Mangiamo con le posate da parecchi secoli ma non mi sembra che sia alle viste qualcosa di nuovo e di eccitante che sostituisca forchetta, cucchiaio e coltello.
    Una piccola notazione aneddotica. La mia prof. di matematica delle Medie, che ricordo sempre con piacere, mi insegnò, più di cinquanta anni fa, alcuni “trucchetti” per il calcolo mentale che uso ancora spesso e con diletto, l’operazione 97 + 89 io la faccio quasi automaticamente così: 100+89 -3.
    E diventa facilissima

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