… e imparare dagli errori altrui?

Nella scuola tendiamo ad introiettare le novità in modo acritico, spesso senza nemmeno indagare quali effetti esse abbiano prodotto nei paesi in cui sono state introdotte prima

Tom Nichols (1960-) ha suscitato un acceso dibattito, negli Stati Uniti, con il suo The death of expertize (2017), un saggio in cui descrive senza mezzi termini i pericoli che corre una democrazia che accetti o addirittura promuova l’abbassamento del livello della preparazione scolastica ed universitaria fornita alle giovani generazioni. Tale processo è reso possibile dalla combinazione letale tra il degrado delle conoscenze e dei saperi consolidati all’interno del sistema culturale, e la trasformazione delle scuole e dei college in aziende che badino solo al profitto.
Penso sarebbe di qualche utilità riflettere anche in Italia su un simile pericolo, che oltreoceano ha già prodotto alcuni dei suoi frutti avvelenati.

“Neanche il genitore più attento, il cliente più informato o l’elettore dotato di maggior senso civico può tenere il passo con il fiume di informazioni che ci inonda su qualsiasi argomento, dalla nutrizione infantile alla sicurezza dei prodotti alla politica commerciale. Se i cittadini comuni potessero assorbire tutte queste informazioni, non avrebbero certo bisogno di esperti. La fine della competenza, tuttavia, è un problema diverso rispetto al dato storico dei bassi livelli di informazione tra i profani. La questione non è l’indifferenza di fronte ai saperi consolidati; è l’emergere di un’ostilità assoluta nei confronti di tali saperi. Questo è un fenomeno nuovo nella cultura americana: si tratta di un processo di aggressiva sostituzione delle opinioni degli esperti o dei saperi consolidati con la convinzione che, qualsiasi sia la materia, tutte le opinioni siano altrettanto valide. È un cambiamento notevole nel nostro dibattito pubblico […]

I fallimenti dell’università moderna alimentano gli attacchi alla conoscenza che quelle stesse istituzioni hanno creato e insegnato alle generazioni future grazie a un lavoro di secoli. La disciplina e la maturazione intellettuale sono state messe da parte. La trasmissione di importanti conoscenze culturali (che comprendono di tutto, da come costruire un’argomentazione logica al DNA, fino alle basi della cultura americana) non è più la missione dell’università, ormai ridotta a un servizio clienti.
Il college dovrebbe essere un’esperienza scomoda. È il luogo in cui una persona si lascia alle spalle l’apprendimento dell’infanzia, basato sulla memorizzazione e la ripetizione, e accetta l’ansia, il disagio e la sfida della complessità che conduce all’acquisizione di una conoscenza più profonda, che dovrebbe durare per tutta la vita. Un diploma universitario, che sia in fisica o in filosofia, dovrebbe essere l’indicatore che una persona è veramente “istruita”, che non solo ha padronanza di un determinato argomento, ma possiede anche una comprensione più ampia della propria cultura e della propria storia. Non dovrebbe affatto essere un percorso facile.
Ma non è più questo il modo in cui è vista l’università nell’America moderna, sia da chi fornisce sia da chi consuma l’istruzione superiore. Il college, in quanto esperienza incentrata sul cliente, tende a soddisfare gli adolescenti invece di scortarli fuori dall’adolescenza. Anziché liberare gli studenti dal loro solipsismo intellettuale, l’università moderna finisce per rafforzarlo […]

Questi sono ragazzi a cui è stato insegnato a dare del “tu” agli adulti fin da quando erano piccoli. Hanno ricevuto “voti” destinati a far crescere la loro autostima, piuttosto che a stimolare il conseguimento di risultati. E si sono immatricolati dopo aver potuto esaminare accuratamente i college, come se stessero ispezionando un condominio vicino a un campo da golf. Questo flusso di piccole ma significative concessioni ai ragazzi da parte degli adulti, unito alla loro autostima, va a corrodere la capacità di apprendimento, inculca la falsa sensazione di aver ottenuto dei risultati e provoca un eccesso di fiducia nelle proprie conoscenze che perdura anche in età adulta.
Quando arrivai al Dartmouth College alla fine degli anni Ottanta, mi raccontarono una storia su un noto (e al tempo ancora vivo) membro della facoltà che in un certo senso illustra questo problema e la sfida che comporta per gli esperti e gli educatori. Il rinomato astrofisico Robert Jastrow stava tenendo una conferenza sul programma del presidente Ronald Reagan per lo sviluppo di difese missilistiche nello spazio, che lui stesso sosteneva con decisione. Uno studente sfidò Jastrow durante la sessione di domande e risposte, e a detta di tutti lo scienziato si mostrò paziente, pur restando convinto che il programma fosse realizzabile e necessario. Lo studente, rendendosi conto che uno scienziato di una grande università non avrebbe cambiato idea dopo pochi minuti di discussione con un allievo dei primi anni, alla fine alzò le spalle e rinunciò. “Be’,” disse lo studente “la sua ipotesi è buona quanto la mia”. Jastrow interruppe il giovane. “No, no, no” disse enfaticamente. “Le mie ipotesi sono molto, molto migliori delle sue” […]

[…] le facoltà segnalano che sia in aula sia sui social media sempre più di frequente si verificano incidenti in cui gli studenti prendono le correzioni come insulti. Lodi immeritate e successi di poco conto costruiscono negli studenti una fragile arroganza che può portarli ad attaccare verbalmente il primo insegnante o datore di lavoro che mandi in frantumi quell’illusione, un’abitudine che si dimostra difficile da dismettere in età adulta”.

[tratto da: Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, Gedi, Roma, 2019, pp. 38, 101, 108, 110].

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