Il disprezzo del sapere: gli impostori della scuola.
Nelle scuole di oggi, paradossalmente, cresce il numero di insegnanti che sembrano provare fastidio per la conoscenza. Alcuni scambiano la cultura per arroganza, lo studio per ostentazione, la competenza per vanità. Ma dietro questo disprezzo si nasconde una difesa psicologica: chi non possiede il sapere tende a svalutarlo per non sentirsi mancante. Da Platone a Nietzsche, la filosofia ci insegna che il valore di ciò che non si ha è il motore stesso del desiderio e della crescita. Solo chi accetta la propria ignoranza può davvero tornare a imparare, e ad accendere la fiamma del sapere anche negli altri.
Com’è possibile che, proprio nelle scuole, i luoghi destinati a trasmettere conoscenza, cultura, spirito critico e competenze, si moltiplichino figure di “insegnanti” infastiditi dalla conoscenza?
Com’è possibile che alcuni di loro guardino con sospetto o con fastidio i colleghi preparati, scambiando la cultura per arroganza, la competenza per vanità, lo studio per ostentazione?
Com’è possibile che, proprio dove dovrebbe fiorire l’amore per il sapere, si neghi il valore stesso dell’apprendimento?
La scuola di oggi sembra popolarsi di impostori del pensiero e di nemici della conoscenza.
Molti di loro sono semplicemente poco istruiti, altri profondamente ignoranti; ma in entrambi i casi reagiscono nello stesso modo: disprezzano ciò che non possiedono. È un riflesso difensivo: “Se non so, allora sapere non serve”.
Un capovolgimento psicologico antico e potente: una sorta di difesa narcisistica.
E non si tratta soltanto di ignoranza: molti di questi insegnanti sono ideologizzati, aderenti a pedagogie di facciata che fingono di celebrare la libertà e la creatività dell’allievo, ma che in realtà disprezzano la conoscenza, svuotano di senso il sapere trasmissivo e negano l’autorità educativa dell’insegnante.
Sotto il linguaggio dell’innovazione e dell’inclusione, spesso si cela un rifiuto profondo del sapere come valore, un sospetto verso la competenza e verso ogni forma di rigore intellettuale. E forse anche per questo oggi si spaccia per preparazione culturale dell’insegnante un costrutto ideologico irrazionale che osa sostenere la non centralità delle conoscenze, sia del maestro, sia del suo allievo.
Chi si sente fragile di fronte al sapere, insomma, invece di riconoscere la propria mancanza, la rovescia in disprezzo. È lo stesso meccanismo per cui chi non sa amare dice che l’amore non esiste, o che è solo un’illusione. Negare il valore di ciò che non si possiede serve a proteggere la fragile immagine di sé:
un po’ come il bambino che non riceve affetto si convince di non averne bisogno;
oppure come l’adulto che, non essendo riuscito ad ottenere successo, lo dichiara una cosa da superficiali. È una forma di auto-consolazione e di riconfigurazione mistificata del mondo: se non posso averlo, allora non vale.
Da un punto di vista psicologico, è un tipico caso di riduzione della dissonanza cognitiva: per evitare di ammettere la propria mancanza, la mente nega il valore stesso di ciò che manca. Come a dire: è più facile svalutare che soffrire. Si mente a sé stessi per sentirsi meglio.
Però sul piano più profondo, quello etico e filosofico, negare il valore di ciò che non si possiede significa qualcosa di molto più grave: significa rifiutare l’alterità come fonte di valore. È un gesto di chiusura all’essere, di riduzione del mondo a ciò che rientra nel proprio dominio. È l’esaltazione del possesso contro il valore dell’apertura e della ricettività: solo ciò che è mio ha valore. Eppure, proprio questa chiusura impedisce ogni crescita, perché il valore, come il bene, la verità e la bellezza, eccede sempre il possesso.
Platone, nel Simposio, fa dire a Diotima che Eros non è un dio, ma un demone:
non possiede il bello, ma lo desidera; non è sapiente, ma ama la sapienza.
Chi desidera, infatti, riconosce come prezioso ciò che non ha.
Negare il valore di ciò che non si possiede significa, per Platone, uccidere Eros, spegnere la tensione verso il bello e il vero.
Aristotele, dal canto suo, insegna che ogni movimento nasce da una mancanza:
è il desiderio di ciò che non abbiamo a spingere la nostra potenza verso l’atto.
Chi si chiude nella soddisfazione di ciò che già è, in un certo senso smette di essere vivo in senso pieno.
Per Agostino, invece, tutto ciò che amiamo nel mondo è segno di un bene più alto: il cuore umano desidera l’infinito, e chi nega il valore di ciò che non possiede rifiuta la propria tensione verso Dio, quella inquietudine che ci abita finché non riposiamo in Lui.
Spinoza chiamerà questa forza interiore conatus: il desiderio che sostiene la vita stessa. Ma quando diventa passivo, quando si traduce in tristezza e impotenza, l’uomo riduce la propria potenza di essere. Riconoscere il valore dell’altro, invece, accresce la vita.
Nietzsche andrà ancora più a fondo: per lui, negare il valore di ciò che non si ha è il cuore stesso della morale degli schiavi. Chi non può essere forte, dichiara il forte malvagio. È il ressentiment: il risentimento che trasforma in vizio ciò che non si è capaci di ottenere.
Anche Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, mostra che l’autocoscienza si compie solo nel riconoscimento reciproco. Se nego valore all’altro, cioè a ciò che mi manca, mi rinchiudo nella solitudine sterile del servo o del signore. Il valore secondo Hegel, dunque, non nasce dal possesso, ma dal riconoscimento.
Che sia chiaro: qui non si parla dell’ignoranza innocente, quella del semplice “non sapere”, ma dell’ignoranza militante, che si compiace del non sapere e lo usa come strumento di potere. Chi disprezza la conoscenza pur insegnando, vive un conflitto profondo: è come un medico che odia la medicina o un musicista che odia la musica.
Eppure, proprio in quella tensione può nascondersi un varco di salvezza: la consapevolezza del proprio limite può diventare la soglia per tornare ad imparare. È tuttavia fondamentale ricominciare dall’ammissione delle proprie mancanze e, dunque, della propria ignoranza che è esattamente l’opposto di ciò che fanno gli impostori della scuola di oggi!
Al fianco di questi impostori ci sono anche molti insegnanti che un tempo credevano nel loro lavoro e nell’importanza della conoscenza ma che poi si sono arresi, stanchi, delusi e feriti; schiacciati da un sistema dove chi fa bene è spesso deriso, punito o delegittimato da colleghi, dirigenti e genitori indifferenti a ciò che gli studenti imparano davvero. A ben vedere questi insegnanti sono il prodotto di un sistema che ha reso più comodo, e addirittura più conveniente, non insegnare affatto.
Naturalmente non si vuole qui affermare l’idea che un vero insegnante sia colui che sa tutto! Il vero insegnante è piuttosto colui che non smette di voler sapere. Come ricordava Socrate, “So di non sapere” non è la mera confessione di un ignorante o ancor meno la celebrazione della mancanza di conoscenza, ma l’atto di dignità e di amore di chi continua a imparare. Cosa che, nella scuola di oggi, sempre più insegnanti purtroppo hanno smesso di fare.
Oggi più che mai, insomma, è necessario tornare a provare vergogna nell’essere insegnanti ignoranti che non amano apprendere! Oggi più che mai la scuola ha bisogno di insegnanti che tornino ad amare ciò che dicono di insegnare. Perché chi disprezza il sapere tradisce la sua stessa missione: spegne la fiamma invece di alimentarla.
Ma ogni volta che un insegnante, anche solo uno, torna a cercare, torna ad appassionarsi a ciò che deve insegnare, anche solo per un istante, quella fiamma si riaccende. Perché, fortunatamente, il sapere non muore mai del tutto: aspetta solo di essere desiderato di nuovo.

Bene. Il cuore centrale dell’ intera questione è l’abbassamento, il capovolgimento dei valori, dettato a sua volta dal predominio della morale degli schiavi.. è per questo che anche l’insegnamento (che è una forma elevata) tende anch’esso ad essere abbassato, livellato, schiacciato…proprio in quanto fattore elevato.
Sì, Dario, hai ragione. Aggiungo un’altra ipotesi per spiegare la misologia che domina oggi nelle scuole, soprattutto tra gli insegnanti: un’ipotesi che richiama il senso della celebre favola di Esopo della volpe e l’uva. In sintesi, chi non riesce a ottenere ciò che desidera, finge che non ne valga la pena. Così, i falsi insegnanti disprezzano i veri insegnanti, perché disprezzano ciò che non riescono a essere.
Grazie per questo esercizio di verità, che denuncia senza disperazione la disperante condizione in cui siamo precipitati.
Aggiungo solo questo: gli studenti, semplicemente, amano gli insegnanti veri; per questo, soprattutto, gli insegnanti veri vengono guardati con sospetto, con fastidio e con disprezzo da quelli falsi.
Verissimo Enrico: gli insegnanti veri vengono guardati con sospetto, con fastidio e con disprezzo da quelli falsi. Aggiungo io: essi vengono guardati anche con invidia dagli insegnanti impostori. Come scrive Nietzsche: «L’invidioso, quando vede qualcuno elevarsi al di sopra del livello comune, vuole riportarlo giù. Desidera l’uguaglianza, non solo tra le persone, ma anche nella natura e nel destino. Si irrita quando le cose non vanno in modo uguale per gli uguali».
Aggiungerei che gli insegnanti che amano il sapere e lo coltivano sono oggigiorno non solo invidiati e mal tollerati dai più ignoranti, ma spesso anche guardati con fastidio e ironia da quanti, tra i loro colleghi più scafati e/o integrati nel sistema, li ritengono ingenui passatisti che non capiscono la nuova realtà della scuola fatta ormai soprattutto di accoglienza, progettiamo, inclusione, intrattenimento e autopromozione permanente, non certo di cultura.