Il mondo del lavoro e i giovani: lacune e deficit crescenti.

Offriamo qui un punto di vista alternativo sul mondo della scuola. Chi scrive si occupa di inserimento lavorativo.

Quarant’anni fa il mio mestiere non aveva ragion d’essere. Il mondo del lavoro era più semplice, suddiviso tra competenze manuali o esecutive e competenze complesse o dirigenziali. Si entrava attraverso il titolo di studio che garantiva una “certificazione” effettiva ovvero si dava per scontata una preparazione di base sulla quale costruire i successivi affinamenti che si ottenevano soprattutto con la pratica e l’esperienza oltre che attraverso l’assist di persone senior che trasferivano gradualmente le proprie competenze ai più giovani.

I ruoli più trasversali, direzionali, complessi erano basati su una forte preparazione teorica, astratta, logica garantita dalle facoltà universitarie e da un successivo percorso di carriera, spesso in affiancamento, in cui il cursus honorum sul campo era un percorso a responsabilità crescente sempre sotto il mentoring di persone più adulte ed esperte che supervisionavano e validavano l’acquisizione delle abilità.

Fattor comune di entrambi i percorsi era la consapevolezza che la realizzazione lavorativa e professionale anche dal punto di vista economico era un processo che si articolava negli anni ed aveva bisogno di costanza, dedizione e soprattutto di validazione altrui. Ovvero i risultati dovevano essere riconosciuti dalla qualità della performance e non dall’autosuggestione.

Che cosa è cambiato nel mondo economico e nella società?

  1. La crescita esponenziale delle competenze professionali necessarie alla performance lavorativa sia in conseguenza dell’evoluzione tecnologica che per la globalizzazione dei mercati, l’aumento delle complessità sociali e l’ingresso sui mercati di miliardi di nuovi operatori e consumatori.
  2. La parcellizzazione del sapere, in parte conseguenza del punto precedente in parte come emulazione di modelli anglosassoni considerati vincenti.
  3. La gestione degli orizzonti temporali ovvero la compressione dei cicli di processo e la necessità di concretizzare risultati immediati sia dal punto di vista produttivo che come bisogno emotivo individuale e sociale.

Gli operatori della formazione professionale in ingresso si trovano quindi a dover gestire attraverso percorsi formativi sempre più brevi e standardizzati (e quindi generalmente poco efficaci) lacune crescenti solo in parte strettamente professionali che sono colmabili attraverso specifiche attività di addestramento presso l’azienda stessa. I deficit sono soprattutto culturali e relazionali, riconducibili all’“attitudine” lavorativa ovvero la predisposizione a ricoprire un ruolo complesso sia in termini di responsabilità che di relazioni orizzontali e verticali.
Sembra che sia scomparso ogni ragionamento di prospettiva, di acquisizione di esperienza.  Tutto dev’essere immediatamente capitalizzato e comunque non ai fini del miglioramento delle skill ma quasi fosse una terapia anti-ansia.

Se tutto questo sia imputabile alla scuola, alla famiglia o alla virtualizzazione delle relazioni sociali è un tema in cui non mi sento preparato ad addentrarmi.
L’amarezza tuttavia cresce nel constatare che i giovani più svantaggiati e con maggior difficoltà a permanere nel mercato del lavoro o ad assumere via via ruoli più gratificanti sono coloro che provengono da situazioni familiari culturalmente più fragili e che non hanno trovato nella scuola o nel contesto sociale di appartenenza alcuno strumento utile a colmare le proprie lacune.


CHI SONO: mi occupo dal 1996 di inserimento lavorativo ovvero collaboro alla costruzione di quell’anello di congiunzione tra istruzione superiore ed universitaria e mondo del lavoro. E questo sia per l’acquisizione delle competenze strettamente professionali sia per rafforzare negli allievi un’attitudine alla relazione ed alla performance richiesta dal sistema delle imprese e della competizione globale.

Un commento

  1. Testimonianza molto interessante. L’autore, correttamente, dichiara di non pronunciarsi sulle responsabilità di questa sconfortante situazione, io come ex insegnante mi sbilancio un poco, ritengo che il fenomeno sia complesso e multifattoriale ma una parte consistente di responsabilità sta nella “presa del potere” nella scuola, da almeno 25 anni, del “buonismo” psico-pedagogico, la scuola del benessere a tutti i costi, del successo garantito, dell’impegno minimo, tutto ciò che il Gessetto denuncia ormai da tempo. Preciso che, ovviamente, non tutti gli psicologi o i pedagogisti sono su queste posizioni, ma purtroppo quelli che oggi indirizzano la scuola sì. Un tema doloroso è proprio quello della fine della funzione democratica e costituzionale dell’istruzione pubblica; la promozione culturale e socioeconomica delle classi cosiddette inferiori. Questi professionisti del buonismo senza se e senza ma, non vogliono rendersi conto che è (anche) proprio questo tipo di scuola che nega una delle poche opportunità che un giovane ha per uscire da una situazione sociale, economica, famigliare, sfavorevole.

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